D ue giorni prima di affrontare il primo decisivo voto di fiducia, Giuseppe Conte a nome proprio, più che a nome della sua maggioranza, ha dichiarato di volersi impegnare a promuovere una riforma elettorale proporzionale «quanto più possibile condivisa», che possa coniugare le ragioni del pluralismo con quelle della stabilità politica. Si tratta della solita formula generalmente adottata ogni qualvolta si decide di mettere mano alla legge più discussa e discutibile che in una legislatura si possa approvare: quella elettorale.

Determinare le caratteristiche del meccanismo che traduce i voti in seggi e consente ai cittadini di scegliere i parlamentari è una delicata operazione che risponde, in realtà, più alla sopravvivenza delle forze politiche, che all'efficienza del sistema politico. Non casualmente Conte ha lanciato questa proposta, in coincidenza con la necessità di individuare uno schieramento che inizialmente rappresentasse un punto di aggregazione nelle due Camere per garantire la tenuta dell'attuale esecutivo. Da qui, è scaturito il richiamo a ben tre famiglie politiche al momento schiacciate dal populismo di sinistra e dal sovranismo di destra: liberali, popolari e socialisti.

A questo proposito la “proporzionale” può esercitare un richiamo fortissimo, perché potrebbe spingere le tre aree a stringere un patto di collaborazione, per scongiurare un'estinzione che sarebbe irrimediabile a causa della combinazione mortifera rappresentata da un sistema maggioritario e dal taglio dei parlamentari.

D 'altronde, la proporzionale è storicamente il sistema politico che può garantire la sopravvivenza anche a formazioni che sono necessariamente sorrette da un elettorato massiccio e consente a ogni schieramento in grado di superare una soglia di minima del 4-5% di costituire dei gruppi parlamentari sia alla Camera sia al Senato.

Dunque, l'obiettivo è quello di federare le piccole formazioni centriste, laiche, popolari ed europeiste in un'unica lista, ovviamente guidata dallìattuale premier.

La proposta però perderebbe qualsiasi capacità di attrazione, nel momento stesso in cui il sistema elettorale restasse pressoché immutato, mantenendo una sostanziale preminenza della formula maggioritaria. Nei singoli collegi elettorali la coalizione di destra da un lato, e l'intesa fra M5S e PD dall'altro, di fatto, si spartirebbero l'intero patrimonio della rappresentanza uninominale, mentre le soglie troppo alte d'accesso per spartirsi i restanti seggi proporzionali, impedirebbero a gli schieramenti che galleggiano intorno al 2-3% di accedere in Parlamento.

Lo scenario può apparire un po' fosco, rimane infatti aperta l'incognita rappresentata dalla possibilità di accedere a una coalizione, ma alla luce del taglio di oltre trecento scranni, temo che la disponibilità sia nel centrosinistra sia nel centrodestra di condividere i collegi sicuri con i cosiddetti “partitini” sia molto più bassa rispetto al passato.

Non resta che aspettare di capire da quale maggioranza parlamentare sarà gestito questo passaggio. La battaglia sul sistema elettorale verrà vinta come sempre da coloro che compongono la compagine di governo e dagli schieramenti che la sostengono.

Ancora una volta, dunque, sarà totalmente illusorio pensare che questa riforma possa essere condivisa fra maggioranza e opposizione. Pertanto, l'Italia aggiornerà il proprio record, ovvero quello di essere il Paese che negli ultimi 25 anni ha cambiato più leggi elettorali. Ormai ricordare tutte le denominazioni è diventato un esercizio utile per declamare, partendo dal mattarellum, uno scioglilingua approdando a un nuovo manufatto che verrà certamente smantellato dalla successiva maggioranza che governerà nella successiva legislatura. Nel frattempo, vecchi schieramenti saranno si saranno estinti o rinnovati e altre formazioni con nuovi leader saranno apparse all'orizzonte, a conferma del fatto che cambiare legge elettorale con questa frequenza contribuisce solo a mantenere inalterata una perenne instabilità.

MARCO PIGNOTTI

DOCENTE DI STORIA

CONTEMPORANEA

UNIVERSITÀ DI CAGLIARI
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