L a crisi politica non è ancora superata. La tempesta è stata intensa, si intravede un timido raggio di sole. Questa almeno è la vulgata. In realtà, sotto il tappeto c'è ancora tanta polvere. La maggioranza al Senato è risicata. Restano i distinguo sul merito (pochi) e le divisioni sugli assetti di potere (molte). Torna in mente una frase della vecchia politica: «passavamo giorni e notti sugli scenari e le idee, a discutere animatamente. Poi, concordata una nomina, tornavamo tutti d'accordo». In effetti, col senno di poi, prima e terza Repubblica non sono molto diverse.

Ora (come allora) la crisi si è aperta per calcoli, potere, visibilità. E si chiuderà appena soddisfatti gli appetiti di tutti. Compreso Mastella che, come emissario di Pd e 5 stelle, è tutto dire. Comunque vada, sorge spontanea una domanda: perché non riusciamo mai ad anteporre l'interesse generale a quelli particolari? Le ragioni sono profonde e risalenti. Me ne vengono in mente almeno cinque. Primo. Avendo gli italiani un'alta considerazione della propria dimensione personale e familiare ed una scarsa considerazione della comunità cui appartengono, essi scelgono i propri rappresentanti sperando di gratificare la prima, non la seconda. Non importa che gli eletti siano capaci di realizzare il bene comune, basta che adempiano alle promesse elettorali e soddisfino gli interessi particolari degli elettori. Questi ultimi sono dunque ben edotti di chi hanno davanti. Da qui la loro profonda, consapevole sfiducia nella classe dirigente. Secondo. I rappresentanti - scelti per clientelismo- tendenzialmente un mestiere non ce l'hanno e ripongono nell'investitura pubblica la speranza di un reddito. Aumenta quindi la classe politica professionistica. Terzo. Il politico di professione tenta invariabilmente di aumentarsi prebende ed emolumenti. E pensa anche al dopo, cercando di attribuirsi vitalizi. Aumentano quindi privilegi e rendite. Quarto. Equivalendo la sconfitta elettorale alla perdita del posto di lavoro, il politico professionista tenterà ad ogni costo di evitarla, alleandosi con chiunque. Senza vincolo di mandato, egli potrà inoltre cambiare, alla bisogna, casacca e schieramento. Cresce quindi il trasformismo. Non solo, cresce anche il parassitismo poiché il rappresentante, per restare in carica, promuoverà politiche di breve periodo attribuendo all'elettore rendite parassitarie da barattare col voto: quindi con la propria. Quinto. La rarefazione dei partiti non consente più di maturare aspettative di carriera. È infatti aumentata a dismisura la precarietà e nessuno è più disposto a dimettersi (specie da un Parlamento dimidiato). Aumenta quindi l'instabilità dei governi mentre si allungano le legislature. Per rimanere in sella occorre saper governare le crisi. E quest'ultima ne è l'ennesima conferma. E allora, comunque vada, cosa fare? Almeno tre cose, ormai indifferibili. Primo: rendere necessaria la laurea per ruoli amministrativi e cariche elettive. Chi ha studiato (di solito) non sfigura. Spesso un lavoro ce l'ha e vi può tornare. Secondo: ridurre gli emolumenti (anche con imposte di scopo o con l'obbligo di assumere collaboratori) e sopprimere le rendite. Terzo: ripristinare il limite del doppio mandato almeno per il Parlamento ed i Consigli regionali. È solo una base di partenza. Ma chi non parte non arriva mai.

ALDO BERLINGUER
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