R iferendosi ai politici che calcano le scene in questi giorni di crisi latente, l'amministratore delegato di una grande azienda privata, come ha riportato Federico Fubini sul Corriere della Sera, ha avuto una brillante folgorazione, ovvero «ha capito che quelli - combattendosi, odiandosi - erano tutti d'accordo su un punto: più Stato nell'economia, più denaro dei contribuenti nei gangli del sistema produttivo, tanto poi le leve vengono mosse dai loro partiti».

Questo è il paradosso della crisi, prosegue Fubini, «poiché l'Italia ha finalmente ottenuto in Europa quel che chiedeva da vent'anni, il governo rischia di cadere. È dall'avvio dell'euro che volevamo un eurobond e ora lo abbiamo nella forma di Next Generation Eu, il Recovery fund da 209 miliardi solo per l'Italia. Non ha condizioni, se non che non diventi un'effimera iniezione di zuccheri o olio negli ingranaggi, ma sia speso per costruire il futuro». Ma su questa unica, ragionevole condizione, «ora il governo si sta dilaniando in una verifica, perché non riusciamo a decidere chi gestirà i soldi, come spenderli e ancora meno quali ingranaggi del Paese vanno aggiornati per far sì che la spesa non sia vana. I politici sono d'accordo solo sull'unico punto di cui sopra: anche quel progetto rafforzerà la presa del settore pubblico sull'economia. Ha senso?». La risposta è scontata. Tuttavia, a parte la struttura del nuovo governo che dovrebbe venire fuori dal braccio di ferro Conte-Renzi, sembrerebbe che i punti focali del programma su cui ruota la diatriba siano due.

I l primo punto è costituito da un problema tecnico, cioè dal fatto che le risorse del Recovery fund non potranno essere utilizzate interamente per finanziare progetti aggiuntivi rispetto a quelli già programmati in passato, perché in tal caso l'impatto sul deficit e sul debito, come hanno messo in evidenza al Ministero dell'Economia, non rispetterebbe i vincoli di bilancio posti da Bruxelles.

Per limitare il deficit e il debito aggiuntivo nei prossimi anni, infatti, la parte dei prestiti europei nella dotazione italiana del Recovery fund (127 miliardi su un totale di 209, mentre i restanti 82 arrivano sotto forma di trasferimenti) non potrà essere spesa interamente in nuovi progetti supplementari, come preteso da Renzi. Questi ultimi, per l'esattezza, potranno impegnare non più di 40 miliardi di prestiti europei, mentre i restanti 87 dovranno riguardare progetti esistenti che sono già stati contabilizzati nel debito.

Un esempio è costituito dai piani per l'Alta velocità ferroviaria al Sud, che erano in preparazione da anni, ma ora compaiono nel Recovery plan fra quelli da finanziare coi soldi di Bruxelles. Se Next Generation Eu non esistesse, l'Alta velocità al Sud verrebbe finanziata emettendo titoli di Stato.

Il secondo punto focale della diatriba Conte-Renzi, invece, riguarda un problema più generale della spesa pubblica italiana, ovvero la prevalenza della politica dei bonus finalizzata all'acquisizione del consenso elettorale sulla politica degli investimenti. Renzi avrebbe ragione da vendere quando sostiene che il governo Conte dovrebbe dare meno bonus e fare più investimenti, se non fosse che ad inaugurare la politica dei bonus è stato proprio lui coi famosi 80 euro.

Ma è sulla struttura del potere che il braccio di ferro continua. Il punto, scrive Francesco Verderami sul Corriere della Sera, «è come si aprirà lo showdown e chi lo farà. Perché il resto è già scritto, è solo un logorante braccio di ferro tra Renzi, che usa la tattica del cerino per lasciare a Conte l'incarico di spegnerlo, e Conte che usa la tattica del carciofo per scaricare una alla volta le armi di Renzi contro il suo governo».

Così, se da una parte il leader di Italia Viva descrive minuziosamente come «il ragno dopo aver tessuto la ragnatela aspetta che la mosca ci finisca dentro», dall'altra il premier avvisa che lui al Colle ci sale «solo previa intesa formalizzata» per un Conte 3, «altrimenti preferisco andare in Parlamento».

BENIAMINO MORO

UNIVERSITÀ DI CAGLIARI
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