“ N atale a casa propria”, dice il ministro Francesco Boccia, e così sarà dopo la lunga e complicata gestazione dei provvedimenti del governo per le feste: Natale blindato e festività regolate con il semaforo. Ma stavolta sarà un semaforo un po' particolare, a sole due luci, perché il verde non scatterà per nessuno: arancione o rosso per tutti, fino a Natale.

Oggi non vogliamo commentare il merito di queste decisioni (a lungo attese) con il tono recriminatorio di chi si fa prendere dal mal di pancia contro i divieti. Ma piuttosto lo facciamo con il legittimo fastidio che si trova di fronte ai tanti tira-e-molla, ai braccio di ferro che lasciano tutti nell'incertezza, alle chiusure e alle norme contrattate per interesse politico nei Consigli dei ministri. L'epidemiologia non può diventare un tema di confronto politico, il pasto di Natale non può dipendere dal rimpasto di governo, ciò che si fa non può dipendere dal momento di forza (o debolezza) di una coalizione.

Stupisce dunque che in questo braccio di ferro tra falchi e colombe nella maggioranza (hanno vinto i falchi: Dario Franceschini, Roberto Speranza e lo stesso Boccia) a finire in minoranza sia stato Giuseppe Conte, e a prevalere la linea del Comitato tecnico scientifico. Dopo la seconda ondata, infatti, non c'è più nulla di imprevedibile in questa epidemia: non i contagi, calcolati ormai con buona approssimazione dai modelli matematici. E nemmeno i malati - purtroppo - che sono ormai una funzione diretta della diffusione dell'epidemia.

T uttavia abbiamo il diritto di interrogarci - ed esigere delle risposte - sui morti, che in Italia sono mille per ogni milione, mentre in Germania - per esempio - sono solo duecento per milione di abitanti. Se l'Italia ha il più alto tasso di mortalità d'Europa dopo il Belgio, abbiamo il dovere di chiedere perché alle autorità (prima di tutto quello sanitarie) che stanno governando questa crisi. Se siamo l'ultimo Paese che inizia a vaccinarsi, ci possono essere mille motivazioni, ma è necesssrio che almeno ci dicano quali sono. John Kenneth Galbraith diceva - e aveva di certo ragione - che «la politica è la scelta fra il disastroso e lo spiacevole». Ma il semaforo a due colori ci fa tornare alle serissime domande di questi mesi. Quelle già note - ad esempio - sulla stranezza di disposizioni indifferenziate che prescindono dai tassi di contagio regionale. Ha senso adottare le stesse misure in Lombardia (con 2744 contagiati) che in Sardegna (con 285 nuovi casi), in Veneto (al momento in emergenza) che in Umbria (con soli 142 nuovi casi)? Dal punto di vista epidemiologico l'Italia è divisa in aree totalmente diversi, e forse il semaforo uguale per tutti fa perdere il vantaggio accumulato nella fase delle regioni a colori, anche a costo di sacrifici.

Ancora più paradossali sembrano le nuove trovate, come il vincolo anagrafico per i figli “fuori quota” ammessi a tavola: sì ai quattordicenni, no ai diciottenni. Come se una famiglia potesse decidere suoi propri certificati di nascita. Infine i ristori: se si apre e chiude a questa velocità, dovrebbero essere decisi con pari tempismo.

Il Natale con il semaforo si può anche fare. Ma un semaforo che è sempre rosso diventa come un orologio rotto. Segna l'ora giusta, ma solo due volte al giorno.

LUCA TELESE
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