H ola, Pablito. È talmente surreale, questa storia che i morti si ritrovano lassù, che si può anche sorridere, pensando a cosa si diranno. A come pensino, cosa sentano. Di sicuro, se siete di quelli che ci credono, l'incontro con Diego Armando Maradona sarà di quelli dove esserci sarebbe stato bellissimo. «Hola, Pablito», ciao Diego. E giù ricordi, quelle maglie strappate, quel sudore condiviso, il Pallone che resterà sempre d'oro e l'anima che resta qui, con noi, a ricordare che quello è il Mondiale di tutti e che quei ragazzi eravamo noi, nessuno - mai come oggi - si senta escluso.

Q uesto eterno ragazzo non poteva invecchiare, non poteva essere intaccato - anche lui - da semplici questioni terrene come il male. Ripetersi è facile, a pochi giorni da un altro addio. È il nostro Maradona, il nostro lutto sportivo coinvolge un simbolo, ha rappresentato l'Italia che diventava Paese e ci ha costretto a tirare fuori le bandiere, il tricolore tenuto nascosto dalla stagione del piombo e delle stragi. Quell'Italia dei tinelli e delle piazze non esiste più, ma chi l'ha vissuta o chi se l'è fatta raccontare ce l'ha sotto la pelle. Come quelle braccia al cielo, la corsa di un ragazzo esile, stravolto dalla fatica e dalla consapevolezza che quella gioia stava passando. «Dopo i gol al Brasile mi sono seduto su un cartellone, guardavo la gente impazzita e ho capito che la felicità è un attimo, che rabbia non aver potuto fermare il tempo». No, Pablito, il tempo lo hai fermato, perché il ricordo è la migliore medicina per vivere il presente.

Non se la tirava, l'eroe dell'82, continuava a essere quel ragazzo di Prato che il Vicenza si tenne stretto ingannando la Juve alle buste, come si usava allora. Quell'uomo sconfitto dallo scandalo del calcio scommesse che si allenava con i ragazzi della Juve, i glutei morbidi e le braccia troppo fini, uno che non giocava una partita da due anni. E che quando vide Enzo Bearzot che si avvicinava pensò a un errore, quella mattina. «Sei pronto? Ti porto con me in Spagna», la scommessa più incredibile della storia della sport, fra insulti, sberleffi e perfino ceffoni, presi dal ct sulla scaletta dell'aereo. Paolo diventa Pablito, però, quattro anni prima, quando Bearzot, sceglie lui e Antonio Cabrini e li porta in Argentina, dove lo scricciolo stupisce il mondo dopo aver incantato in Italia. Rossi è il possibile che diventa impossibile, l'icona dell'uomo d'area e di rapina, più un riconoscimento all'abilità che alla furbizia. L'abilità, diceva Giovanni Trapattoni, di leggere il pallone prima degli altri, di essere lì dove nessuno pensava di andare. Il Trap che oggi piange un figlio.

Si può piangere mentre si scrive, ma per un campione non sono mai lacrime nervose, spese male, è il cuore che comanda e non c'è maglia, non c'è campanile che possa inquinare il sentimento. Incarnava un pezzo di storia, il Paese visse quell'avventura grazie a lui e a una squadra di italiani, arte e genialità. Quella notte fra l'11 e il 12 luglio 1982 abbracciavi chiunque, era così e basta. Una nazione che ripartiva da lì, con la bandiera fra le mani, guidata da Sandro Pertini, lì, in tribuna a Madrid, vero e indimenticabile presidente di tutta l'Italia. Lo continueranno ad accarezzare, i compagni dell'82, come facevano dopo la vittoria a Barcellona, o quella del Bernabeu, il loro quadro più prezioso da tutelare perché fragile, indifeso, patrimonio collettivo. Ha subìto di tutto, e si è ripreso tutto, le ginocchia spezzate e la squalifica, l'Italia che non lo vuole nei 22 per la Spagna e la stessa Italia che lo elegge eroe senza tempo, un mese dopo. Cadere e rialzarsi, rinascita e trionfo. «Hola, Pablito». Addio, Paolo Rossi, semplicemente grazie.

ENRICO PILIA
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