I l peggioramento dei contagi, nell'ultima settimana, sta facendo rapidamente giustizia dell'idea che l'Italia abbia un vantaggio sugli altri Paesi europei. Il lockdown, più duro di quello di altri Paesi, della primavera scorsa ha probabilmente consentito di mettere il virus sotto controllo. Ma abbiamo ormai imparato che il coronavirus si diffonde sfruttando proprio la nostra socialità ed è dunque inevitabile che, a un certo livello di “riapertura”, corrispondano maggiori infezioni.

Questa volta sono meno concentrate geograficamente (non più nella sola Lombardia) e verranno affrontate da personale medico che ha alle spalle mesi di intensa battaglia. Se ancora non esistono cure che possano vantare la benedizione ufficiale della scienza, ci sono terapie più promettenti di altre e i medici hanno preso le misure a questa nuova malattia. “Speriamo bene” in questo caso non è una frase fatta: innanzi a un virus nuovo, tutti coloro che non sono in prima fila nelle trincee della medicina e della ricerca non possono fare molto di più.

C'è però una tendenza politica preoccupante, e purtroppo consolidata nel nostro Paese. È l'idea che a un problema come questo si dia migliore risposta dal centro che dalla periferia. Ciò vale sia rispetto alla polarità Roma-Regioni che rispetto alla tensione fra pubblico e privato. La politica, e l'opinione pubblica alla quale essa risponde, vogliono risposte uguali per tutti e calate dall'alto.

U n paio di esempi. È chiaro che una più capillare diffusione del vaccino anti-influenzale consentirebbe di ridurre la pressione sugli ospedali, nei mesi invernali, riducendo la probabilità che, quando a un paziente si diagnosticano i sintomi dell'influenza, essi rivelino in realtà un caso di Covid. Del vaccino hanno fatto scorta le Regioni, per distribuirlo a personale medico e a pazienti identificati come “fragili”, lasciando a secco le farmacie, che comunque dipendono dalle gare pubbliche. Il risultato è che tutta una serie di persone, che vorrebbero prendere di per sé questa iniziativa di cautela, non lo potranno fare. Lasciare una parte del vaccino al mercato significherebbe esporlo alle oscillazioni del sistema dei prezzi: se la domanda rispetto alla disponibilità aumenta, così farà il prezzo. Ma questo, di solito, fa sì che aumenti la produzione, consentendo poi, al crescere dell'offerta, ai prezzi di scendere. Badate bene: l'iniziativa del “pubblico” non è volta a sostenere pazienti indigenti, semplicemente ambisce a sottrarre il vaccino al gioco del mercato. Il risultato? Non ce ne sarà a sufficienza.

Ora si parla di nuovo dell'obbligo della mascherina in strada. È il classico esempio di misura pseudo-scientifica: pare una cosa seria (non sono, del resto, mascherine chirurgiche?) ma per quel che sappiamo del contagio è perfettamente inutile coprirsi il viso se si cammina da soli, o con le persone con le quali si vive, all'aria aperta. Perché allora se ne parla? Per ricordare alle persone il pericolo. Per fare loro impressione. Esattamente lo spirito con cui si era deciso di impedire le passeggiate e le corsette, ai tempi del lockdown. Serviva? Nessun esperto lo ha mai sostenuto. In compenso, spaventava.

Centralizzazione e spavento vanno assieme. È evidente che un'epidemia come questa si gestirebbe meglio sapendo attivare energie locali, sulla base di informazioni locali. Per spezzare la catena dei contagi, bisogna risalire ai contagiati, non sparare nel mucchio. Ma questo richiederebbe capacità di gestione e raccolta delle informazioni (da parte del pubblico) e il coraggio di prendersi le proprie responsabilità (da parte del privato).

I costi di un nuovo lockdown sarebbero spaventosi, e speriamo che almeno questo a Palazzo Chigi sia chiaro. Fermare l'economia è una cosa che possono fare i ricchi: a dispetto di tutti i trionfalismi sul Recovery Fund, noi non siamo più ricchi che a inizio anno, siamo solo più indebitati. Dovremmo invece attivare un efficace regime di tracciamento. Anziché spaventare la gente, meglio testarla. Ci sono ormai tamponi antigenici rapidi, che danno l'esito in venti minuti. Se le autorità non sono in grado di organizzare test periodici per tutti, almeno lascino le università, le scuole, le imprese libere di organizzare tamponi settimanali per i propri dipendenti. Li incentivino. Li sussidino. Debito per debito, spendiamo per convincere ogni farmacista, ogni medico, a diventare un “testatore”. Spendiamo per aiutare le imprese ad accertarsi, giorno per giorno, del fatto che non vi siano contagiati fra i propri collaboratori. Serve di più a fare ripartire l'economia, ora, che qualsiasi macro-progetto. E aiuta a frenare l'epidemia molto più efficacemente di quanto non faccia lo spaventare la gente.

ALBERTO MINGARDI

DIRETTORE DELL'ISTITUTO

“BRUNO LEONI”
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