A giugno Matteo Salvini mi disse questa frase: «Nel centrodestra noi funzioniamo così: il leader che arriva primo nelle urne è il leader di tutta la coalizione. Punto». Ovviamente gli avevo chiesto: «E quindi, se arrivasse prima Giorgia Meloni?». Il leader della Lega aveva sorriso sicuro: «La leader sarebbe lei. Ma io so che la Lega arriverà prima, quindi il problema non esiste». Ieri, mentre vedevo scorrere i dati delle regioni e dei comuni, mi sono chiesto se Salvini ripeterebbe queste parole anche oggi. Credo di sì, ma probabilmente lo farebbe con meno sicurezza, e di certo senza sorridere.

Bisogna andare all'osso, per capire bene il senso e gli effetti di questo doppio voto tra amministrative e referendum. La prima sentenza, vagamente apodittica, è questa: la politica sembra non essersene ancora accorta, ma - come scriviamo da tempo su queste pagine - nulla sarà come prima. Il taglio dei seggi imposto dalla vittoria del Sì al referendum, alza di fatto la soglia di sbarramento, e senza immediati correttivi, (anche se si votasse con questa legge, il cosiddetto Rosatellum) solo tre partiti potrebbero eleggere parlamentari in tutte le regioni senza problemi: la Lega e il Pd e Fratelli d'Italia. Ma già il Movimento cinque stelle, con i dati di ieri avrebbe problemi di quorum in diverse zone del Paese, perché ha raccolto numeri molto disomogenei sul territorio: ad esempio il deludentissimo 3,6% in Veneto (aveva il 24% alle politiche!) e l'esiguo 7,6% nelle Marche (aveva il 35,5%!).

L 'effetto combinato del taglio dei seggi e dello sbarramento fa sí che siano premiati i partiti che hanno un radicamento più omogeneo possibile in tutte le regioni, anche nelle realtà più piccole: con metà degli eletti, si rischia facilmente di non passare. La soglia attuale del 3,5% in alcune regioni si è già sollevata al 20%.

La seconda sentenza riguarda le leadership: questa è stata la tornata nera dei due Mattei, ovvero di Renzi e di Salvini. Nell'area del centrosinistra Nicola Zingaretti doveva fronteggiare una doppia sfida molto pericolosa, per lui: dalla sua destra un tentativo di scalata (quello di Matteo Renzi) che aveva già pronta una sponda interna (quella di Stefano Bonaccini). Il miglior laboratorio di questo esperimemto era la Toscana: tuttavia (anche se giocava in casa ed era sicuro di vincere), Renzi si è fermato al 4,5% e non è riuscito ad essere determinante. Fine dei giochi.

Dalla sua sinistra, invece, Zingaretti, ha subito un tentativo di sganciamento dell'ala “autonomista” del M5s. È quella - per intenderci - degli Alessandro Di Battista e delle Virginia Raggi, di tutti coloro che volevano provare a rompere l'alleanza giallorossa e tornare al vecchio tripolarismo. Il miglior laboratorio di questo tentantivo è stata la Puglia, dove i pentastellati contavano su un'ottima candidata, Antonella Laricchia, e su buoni sondaggi di partenza (tra il 15% e il 20%). Ma il voto ha dimostrato che, sia in Puglia che in Toscana che nelle altre regioni, il M5s e Italia viva sono state prosciugate nell'ultima settimana dalla calamita potentissima del voto utile. Il M5s da domani sarà giallorosso, come voleva l'ala governista, o rischia di non essere più nulla.

La terza sentenza riguarda il centrodestra, ed è doppia: da un lato la sconfitta di Matteo Salvini, dall'altro il successo di Giorgia Meloni. Il primo verdetto è figlio di un percorso complesso. Dopo il 2018 Salvini le aveva davvero azzeccate tutte: prima sconfiggendo gli altri leader di centrodestra nelle urne, poi trionfando nelle regionali (a partire da quelle sarde) e quindi con il posizionamento che si era inventato nel governo gialloverde. Ogni voto perso dal M5s, in quei mesi, finiva a lui. Come sappiamo questo equilibrio magico è stato infranto proprio da Salvini nell'estate del 2018, dopo la grande febbre del Papeete. Salvini ha mollato il governo, ha sfiorato il colpo gobbo provando ad andare al voto anticipato. Non ci è riuscito. Si è rimesso a battere l'Italia palmo a palmo, selfie dopo selfie, ma la magia che lo aveva portato dal 3,6% (quando era diventato leader della Lega) al 36% (dopo il trionfo delle europee) sembra essere sparita. Nello stesso momento, l'alleata che lui aveva sempre sottovalutato, Giorgia Meloni, è entrata nel suo momento magico: ruba voti sia a lui che a Forza Italia, ha conquistato un nuovo presidente di Regione (le Marche) e inanellato una serie di risultati che fanno impressione.

Ed ecco un paradosso: nel tempo del proporzionale gli elettori dei due poli si muovono con una logica maggioritaria. Nel tempo delle leadership personali, il ciclo di un capo carismatico dura meno di un treno di gomme per una macchina. Finché tutto va bene il consenso vola, ma basta un errore a cambiare la tua percezione, la tua narrazione, a invertire il tuo ciclo, a trascinarti dagli altari nella polvere. Gli effetti collaterali solo semplici: il governo dura, gestirà lui la pioggia dei finanziamenti, e questo parlamento-zombie (i tacchini che si sono messi nel forno) pronto ad essere dimezzato, per sua stessa volontà, eleggerà il capo dello Stato, e poi si autodistruggerà dopo aver assolto questo impegno, come i messaggi di Tom Cruise in “Mission impossible”.

LUCA TELESE
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