I l professor Filippi ha ricordato, ieri, a tutti i lettori che in questi giorni è in discussione in Parlamento la proposta di legge avanzata dall'Unione delle Camere penali sulla separazione delle carriere dei magistrati inquirenti e giudicanti. L'argomento è sicuramente attuale, non meno, però, di quello più spinoso della conoscibilità reale dell'operato della Magistratura italiana.

La difficoltà estrema, tra ricusazioni e incompatibilità, con cui il Csm sta cercando di giudicare i magistrati coinvolti nell'affaire Palamara dimostra che il controllo delle toghe su se stesse è incompatibile con la Giustizia, perché le logiche di appartenenza correntizia, di militanza, di relazione e di casta impediscono lo svolgersi di un giudizio autentico e sereno.

Serve dunque, prima di qualsiasi riforma, una profonda conoscenza dei fatti. La questione Palamara ha rivelato che i magistrati hanno usato per se stessi quelle forme di clientelismo brutale che hanno spesso contestato al ceto politico. Ha svelato che anche loro chiedono e ottengono favori e favorini; che anche loro si nutrono di pregiudiziali antipatie, di odi e di affinità che incidono sulla loro attività; che anche le Procure hanno avuto conduzioni politiche. Su tutto questo bisogna fare chiarezza come si è cercato di farla sulla P2, su Tangentopoli, su Mitrokin, sulle stragi.

E invece domina la paura ributtante (per chi la osserva) del mondo politico verso il potere giudiziario, nonché la contiguità di certa informazione forcaiola o semplicemente cinica.

C osì si sta facendo passare l'unico squarcio realista su un mondo potente e sfacciatamente privilegiato come quello della magistratura in crisi per Palamara, come un brutto momento da dimenticare.

Non si deve dimenticare. Bisogna continuare a fare domande e difendere la libertà di tutti. Come fa carriera un magistrato? Come cambia il suo patrimonio nel corso della carriera (domanda che se non è infamante per un politico tanto meno può essere sentita come tale da un magistrato)?E ancora: quanto incidono le sue convinzioni e relazioni politiche e giudiziarie sul suo operato? Come lo si può valutare se non esiste un archivio digitalizzato delle sentenze e delle indagini, pur tutelato dalle opportune garanzie di privacy? Chi paga per le verbose cantonate e le ardite architetture concettuali della Polizia Giudiziaria? Chi paga per gli accanimenti investigativi infruttuosi che poi, pur di concludersi in qualcosa, sfociano in processi farlocchi? Chi paga per la diversità di trattamento riservata ai testimoni a seconda della collaborazione con l'accusa piuttosto che dell'aderenza alla verità? Chi paga per gli arresti facili che puntano ad altrettante facili confessioni, come nei film? Chi ha inventato il meccanismo perverso degli encomi legati agli arresti e non alle sentenze?

Queste e tante altre domande devono rimanere in campo quotidianamente e non essere derubricate dall'ordine del giorno.

D'accordo dunque sulla separazione delle carriere. Ma oggi è una questione di libertà e di democrazia tenere il punto e pretendere chiarezza, non consentire al più forte potere dello Stato di svicolare e di non rendere conto dei suoi costumi, dei suoi automatismi, dei suoi fraseggi finalmente, almeno parzialmente, noti. Non per cercare colpevoli, ma perché o si riparte da un fondamento di verità o si eterna l'ingiustizia.

PAOLO MANINCHEDDA
© Riproduzione riservata