Q uando ero un bimbo, la mamma mi raccontava la storiella della famiglia che dovendo acquistare una nuova automobile cominciò una discussione prima sul modello (due porte o quattro porte? bianca o rossa? familiare o sportiva?) che esondò sul chi doveva stare al volante, chi nel posto davanti e chi dietro.

L'auto non era stata stata scelta, le cambiali non erano state firmate (allora le famiglie che uscivano da una composta povertà, in ascesa verso una gaudente borghesia, pagavano con “la cambiale”, titolo del film del 1959 con Totò, Macario, Peppino De Filippo, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Sylva Koscina e altri giganti del cinema che fu), non era neppure stata fatta la consueta visita di marito, moglie e figliolanza in quel luogo, l'autosalone (come un centro di bellezza, di sogno, di conquistata ricchezza) che la lite scoppiò fragorosa, la moglie s'indispettì, i bambini strillarono in lacrime, il padre, tra la depressione cosmica e il terrore della cambiale, sentenziò: «Ora basta, scendete tutti dalla macchina!».

La storiella della mamma mi è tornata in mente più di quarant'anni dopo leggendo le pittoresche dichiarazioni sul Recovery Fund, la nuova fiammante automobile degli italiani o, meglio, della classe politica. I soldi ancora non ci sono (come per la macchina), sono pronte le cambiali da firmare (come per la macchina), si litiga su chi deve stare al volante, chi davanti e chi dietro nella gestione dei finanziamenti (la benzina della macchina). Che spettacolo.

I l dibattito pubblico sul Recovery Fund è dunque salito in macchina, ma con queste tragicomiche premesse, abbiamo il fondato sospetto che non saranno mai rispettate le promesse. Il premier Conte pensa a una regia di Palazzo Chigi (leggere: di se stesso) e la cosa ha un sottotesto che gli amici e i nemici del premier temono: troppo potere. Conte sta lavorando alla costruzione di una sua base elettorale, la partita dei fondi europei è la chiave per rafforzare e aprire un domani la sua corsa politica in proprio.

Questo è il pensiero sotterraneo del Partito democratico e anche di una parte dei Cinque Stelle: il Conte che balla da solo sul forziere colmo di bigliettoni, il premier che nell'immaginario torna in patria tintinnante di zecchini, il salvatore dell'Italia. Siamo nel regno dell'iperbole, perché nel risultato dell'Italia c'è anche il lavoro di Roberto Gualtieri e Enzo Amendola (ministri dell'Economia e degli Affari europei, due dem) e soprattutto la paziente diplomazia di Paolo Gentiloni, commissario Ue all'Economia, il più importante esponente del Pd di cultura moderata, dotato di una rara materia prima: equilibrio e competenza. Gentiloni non ha ricevuto gli applausi, l'alloro, i festeggiamenti, ma il suo lavoro è stato prezioso per non naufragare di fronte all'offensiva (vincente) di Paesi come Olanda, Austria, Danimarca, Svezia, Finlandia, i cosiddetti “frugali”.

Così le scene da un matrimonio sono diventate da un patrimonio e i fasti per Conte sono durati solo 24 ore. Si è aperta la battaglia sul soggetto che deve gestire la fase di progettazione (bisogna presentare un piano, ci sono parecchi vincoli, per fortuna) e poi distribuire i soldi e verificare che tutto fili liscio. Chi? La sede naturale è il Parlamento, ha detto Roberto Fico, presidente della Camera. Bisogna fare una commissione bicamerale, dice l'opposizione che ha trovato sponda anche in elementi della maggioranza. Non fa una piega, ma i processi politici sono lenti, l'economia è veloce, viviamo tempi accelerati. In un Paese con le istituzioni in ordine - e non è il nostro caso - ci sarebbe un confronto tra Parlamento e governo, un negoziato costante che va dritto al punto. Così accade in Germania tra la cancelliera Merkel e il Bundestag (tenete bene a mente questi numeri, 3, 130, 15: la Grosse Koalition ha impiegato 3 ore di discussione per varare un piano da 130 miliardi, riassunto in 15 pagine), così negli Stati Uniti tra la Casa Bianca e il Congresso. Questo percorso dovrebbe essere accompagnato da una riforma delle istituzioni e della burocrazia, perché siamo in una palude. Servirebbe un New Deal per l'Italia, ma le nostre sono parole al vento, Franklin Delano Roosevelt durante la Grande Depressione usò l'intelligenza del gruppo del Brains Trust e cambiò profondamente la burocrazia dello Stato federale. A Palazzo Chigi e in Parlamento non c'è niente di tutto questo, la classe dirigente italiana è come la temperatura di Oslo nelle previsioni del tempo degli anni Settanta in tv: non pervenuta.

Così una nazione “too big to fail”, troppo grande per fallire, sempre salvata perché un Paese che galoppa verso i 2600 miliardi di debito pubblico è inaffondabile (ma facile preda e non predatore), si balocca sui finanziamenti futuri del Recovery Fund, nascondendo a se stesso nel presente che non saranno 209 miliardi a risolvere i problemi di una grande economia che sta diventando più piccola in un mondo di titani. Ora, vi prego, scendete tutti dalla macchina.

MARIO SECHI

DIRETTORE DELL'AGI

E FONDATORE DI LIST
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