A fine anno il debito pubblico dell'Italia sfiorerà o avrà superato quota 2600 miliardi di euro, il rapporto tra debito e pil sarà sopra il 160 per cento, il coronavirus in autunno mostrerà il suo vero volto con un'ondata di licenziamenti e una catena di fallimenti nel settore delle piccole e medie imprese.

L'Italia è all'ultimo posto tra le economie avanzate nelle stime di crescita per il 2020 (-11,2 per cento secondo il Fondo monetario internazionale), la nostra stabilità finanziaria è stata assicurata finora dagli acquisti di titoli da parte della Banca centrale europea, l'Unione ha sospeso il patto di stabilità. Per contrastare la crisi, l'Unione ha messo a disposizione i finanziamenti a tasso zero del Mes e si prepara al lancio del Recovery Fund, oggetto di una battaglia tra due mondi lontanissimi, quello dei paesi del Nord e la nostra fantasilandia economica.

Di fronte a tutto questo, il governo è in una fase di imbarazzante schizofrenia: gira in Europa con il piattino in mano e fa la voce grossa sui giornali; rifiuta di accedere ai fondi del Mes per ragioni di propaganda euroscettica tra Cinque Stelle e Lega; s'inalbera con l'Olanda e l'Austria che chiedono una cosa semplice: un riequilibrio delle risorse disponibili, un bilanciamento tra aiuti e prestiti, garanzie sulla destinazione dei fondi, monitoraggio costante sul loro utilizzo, un “freno d'emergenza” se la spesa va fuori controllo. Certo, loro sono tedeschi e francesi, olandesi e austriaci, hanno surplus e regole fiscali di vantaggio, ma noi siamo altro, il baraccone dove si gioca a tre palle e un soldo.

N on si fidano di noi. E fanno bene perché c'è la nostra storia di ieri e di oggi a parlare. Anzi, dovrebbero essere gli stessi cittadini italiani a chiedere il monitoraggio di quello che farà Palazzo Chigi con il Recovery Fund e non solo, perché ciò che abbiamo visto in passato e negli ultimi due anni, con due governi, due maggioranze (e sempre lo stesso premier, Giuseppe Conte) è allarmante.

Qual è il disegno del governo per l'Italia? E quali sono i programmi dell'opposizione, che si propone come alternativa? Buio totale. Dirette Facebook, like e populismo economico. In Italia non sta avanzando una politica neo-keynesiana, ma una perenne emergenza della mano pubblica (Alitalia, Autostrade e altro ancora arriverà) che viene sempre pagata dal contribuente che a sua volta viene paradossalmente trattato come il figlio di un dio minore. Paga, viene bastonato dal Fisco e deve pure cantare mentre sale sul patibolo.

No, non ci fidiamo. La politica ha l'obbligo non solo di rendicontare, ma di raccontare la sua visione, ammesso che ne abbia una. O forse il Palazzo cerca di salire sulla catapulta del denaro per tirare a campare, e poi lasciare gli italiani di oggi e di domani nella terra di mezzo del debito? Il governo ha emesso 80 miliardi di debito pubblico negli ultimi mesi, nell'arco degli ultimi 12 mesi il debito è salito di 175 miliardi, sono rimasti in piedi quota 100, il reddito di cittadinanza per stare a casa “indivanados”, i navigator che hanno trovato il lavoro solo a se stessi, fiumi di denaro del contribuente («il denaro pubblico non esiste, esiste soltanto il denaro dei contribuenti» disse Margaret Thatcher) sono finiti in una spesa polverizzata (la cui metafora è l'incentivo per i monopattini) mentre lavoratori autonomi, partite Iva, piccole imprese sono stati messi all'indice come legioni di evasori e la cassa integrazione è ancora oggi nella fase “piange il telefono”. Abbiamo sentito un sottosegretario all'Economia, la pentastellata Laura Castelli, affermare che se i ristoranti sono in crisi «bisogna aiutarli a cambiare attività». Facile no? Dovrebbe leggere uno dei discorsi di Jerome H. Powell, governatore della Federal Reserve: «Se una piccola o media impresa diventa insolvente perché l'economia si riprende troppo lentamente, perdiamo qualcosa di più di quel business. Queste imprese sono il cuore della nostra economia e spesso incarnano il lavoro di generazioni». È la storia di un Paese.

Quella storia da noi è in pericolo, ecco perché la Confindustria guidata da Carlo Bonomi è diventata l'unica opposizione naturale al governo. Le imprese sentono scalpitare la crisi, come in Game Of Thrones, “Winter is coming”. Così, con un tempismo da Tafazzi, il governo ha deciso che il 20 luglio - nel momento in cui gli imprenditori cominciavano con grande fatica a respirare, vedere un po' di luce - bisogna pagare le tasse. C'è aria di rivolta tra 4,5 milioni di contribuenti (in prevalenza partite Iva che la crisi ha messo in ginocchio) e i commercialisti l'hanno già dichiarata. Non è arrivata la cassa integrazione, arrivano le cartelle. Insieme alla giungla vietnamita di 246 scadenze fiscali. Siamo alla lotta di classe fatta con le carte. Ecco perché bisogna controllare, seguire passo dopo passo l'utilizzo di tutte le risorse, compreso il Recovery Fund. Come diceva Giuseppe Prezzolini, gli italiani si dividono in due categorie, i furbi e i fessi. Sono sempre i secondi a mantenere i primi. Noi siamo certamente fessi, ma non vogliamo più sorprese.

MARIO SECHI

DIRETTORE DELL'AGI

E FONDATORE DI LIST
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