E urolotteria. Mai una cena è stata così importante per il nostro Paese, come quella che ieri sera ha messso intorno al tavolo i grandi (e i piccoli) d'Europa. Mai come in queste ore il destino di un governo è stato appeso a quello di una nuova trattativa com Bruxelles. Mai, come oggi, tutte le fiches di Giuseppe Conte sono puntate sul rapporto con il gruppo di comando dell'Unione con cui - in passato - ha già chiuso due trattative difficili. Quella cominciata ieri però, la terza, sembra la piu complicata.

Nel primo braccio di ferro, per rendere l'idea, resta storico l'aneddoto sul faccia a faccia con Jean Claude Junker (c'era ancora il governo gialloverde) che lo stesso premier mi raccontó proprio nel giorno dell'accordo. In una a cena a tu per tu convocata prima della riunione, infatti, Junker sembrava freddissimo con l'Italia sul famoso 2,4 di deficit. In quella occasione il lussemburghese formalmente si mostrava garbato, ma nella sostanza era glaciale: per di più - ogni tanto - si girava e sussurrava parole severissime in tedesco, al suo collaboratore, convinto che Conte non capisse quella lingua. Il premier lo lasció parlare due o tre volte, per capire bene la sua posizione, poi, ovviamente in tedesco, disse al presidente lussemburghese dell'Eurogruppo: «Se lei si fida davvero dell'Italia, perché mai sta dicendo altre cose al suo collaboratore, rispetto a quelle che dice a me?». Junker rimase spiazzato: «Ma lei parla tedesco?». E dopo quel momento il ghiaccio si ruppe.

A fine incontro il presidente, ad alta voce, sussurrò qualcos'altro, al suo braccio destro, in una lingua platealmente gutturale e incomprensibile per il premier italiano. Poi si giró ridendo verso Conte e gli disse in italiano spigoloso ma perfetto: «E questo invece è fiammingo!». Il gioco era ormai aperto, la serata si chiudeva con un patto.

Ma oggi il contesto è meno distinto, più scivoloso. I due giorni di negoziazione potrebbero non bastare, Junker non c'è più, l'eurogruppo è diviso, il fronte anti-italiano è all'attacco contro le “cicale”. Tutti intorno a quel tavolo sanno che questa volta il grande malato è l'Italia: troppo grande per poter fallire, troppo forte per poter essere umiliata, troppo indebitata per poter intascare i Recovery fund senza pagare dazio. Un bel paradosso.

La stagione del rigore è morta, ma non ancora finita. L'atteggiamento della Merkel (e della Germania) che all'inizio era platealmente ostile con l'Italia è radicalmente cambiato dopo il Covid-19. Contano ragioni nobili e meno nobili: 1) si sono indeboliti i nazionalisti di Ad, e quindi la pressione anti-italiana sul partito della cancelliera; 2) molti giornalisti, intellettuali e opinionisti tedeschi hanno esaltato il sacrificio del nostro Paese durante la pandemia; 3) il crollo del mercato italiano sta colpendo anche le esportazioni tedesche. Salvando noi si salva (anche) un buon mercato, e chiudendo l'accordo sui Recovery fund la Merkel farebbe un piacere, in primo luogo, al suo Paese. Ma per fare questo Angela dovrebbe anche rompere con i suoi storici alleati.

Scopriremo solo nelle prossime ore se questo negoziato difficilissimo si chiuderà con questo colpo di scena. Tuttavia a quei soldi - inutile girarci intorno - è appeso il futuro del governo. Sono sempre più ingenti, tanto per fare un esempio, i fondi che servono per mettere in sicurezza la scuola dopo il coronavirus. Si spenderanno milioni di euro sono per acquistare i nuovi banchi monoposto, e l'assunzione del personale docente - mi spiega la ministra Lucia Azzolina - ancora non è decisa: «Io a Gualtieri ho chiesto 90mila cattedre». Pausa. Le chiedo: «E Gualtieri gliele darà?». Lei prende un respiro, mi guarda e mi risponde: «Spero proprio di sì». Quelle assunzioni, fra professori e bidelli, il ministro lo sa bene, sono l'unico modo per scongiurare i doppi turni. E poi servono i fondi con cui finanziare il turismo in ginocchio che sta chiedendo la sottosegretaria Bonaccorsi. Ecco perché quella eurocena tra posate d'argento, sorriso e foto di gruppo, nasconde ancora veleni e insidie.

LUCA TELESE
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