Q uando abbiamo scoperto che la Svezia non avrebbe adottato il lockdown, limitandosi a dare istruzioni chiare ai cittadini e a puntare sulla loro maturità, abbiamo provato un po' tutti un miscuglio di sentimenti. Il primo, il più naif: “Poverini, rischiano grosso. Speriamo bene...”. Il secondo, il più naturale: “Ma non è che hanno ragione loro e noi ci stiamo mutilando la vita e il Pil senza bisogno?”. Il terzo, il meno confessabile e quindi il più significativo: “Meglio se il virus gliele suona, ai vichinghi, altrimenti noi che ci siamo tappati in casa facciamo la figura dei fessi”.

È così tipica, così italiana questa paura della brutta figura, questo preferire il dramma all'imbarazzo, il sangue al rossore. Da dove ci viene? Da secoli di culture e dominazioni sovrapposte, dall'intreccio fra senso di colpa cattolico e decoro latino, da vattelapesca: non è questo il punto. Il fatto è che in questi giorni ad alimentare il nostro terrore di passare per fessacchiotti è lo Stato. Se imponi norme giustamente draconiane per la nuova fase, col parrucchiere a tre passi e il caffè su una gamba sola e l'ombrellone sì ma all'orizzonte, e poi non riesci a riaprire le scuole, le preziosissime indispensabili scuole che in Europa hanno riaperto tutti, e anzi neanche ci provi perché è complicato e faticoso, allora per i cittadini sentirsi fessi è più che un destino. È un decreto.

CELESTINO TABASSO
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