I l problema tra la Chiesa italiana e il Governo Conte non è stato provocato dall'ingiustizia palese della riapertura delle fabbriche ma non delle chiese. Esso nasce, invece, da una questione più profonda: non si può prima trattare e poi tradire. Nelle settimane scorse c'è stato un fitto negoziato tra la Cei e il Governo sulle migliori procedure da adottare per la celebrazione dei riti e l'accesso agli edifici sacri.

P oi, a ciel sereno, la proroga dei divieti. Sicuramente nei prossimi giorni Conte correggerà il tiro, ma questo non toglierà molto all'avvenuta incrinazione dei rapporti tra la Presidenza del Consiglio e le gerarchie cattoliche italiane.

Tuttavia, nell'opinione pubblica, la questione si confonde nel chiasso del confronto tra tifoserie lassiste e rigoriste. La Chiesa è ormai in Italia una portatrice di interessi né più né meno come un'associazione di categoria. Quando se ne avvede, si irrita, ma il risultato non cambia.

Viceversa potrebbe prendere atto che la sua natura sociale sta cambiando e che il modello cui sarà costretta a uniformarsi è quello delle chiese delle periferie del mondo, quelle perseguitate, quelle resistenti a qualsiasi omologazione perché fedeli a un'esistenza non alimentata dai nutrienti di questo mondo.

E in fin dei conti, il tributo di preti e suore pagato anche durante questa epidemia, che cosa significa se non questo? Lasciamo perdere alcuni vescovi pavoni (che non mancano mai, ma che diventano anche sempre più ridicoli), andiamo alla sostanza: chi ha dato da mangiare e da dormire ai poveri e ai senza tetto in queste settimane? Chi ha continuato a occuparsi di vecchi abbandonati? Chi ha aiutato tanti piccoli artigiani dando loro soldi nel silenzio? Lo ha fatto la Chiesa.

Certo, ogni ateo militante può legittimamente dire che ogni pestilenza è una dimostrazione, come Auschwitz, che Dio non esiste e se esiste è impegnato a fare altro. Ma queste parole non impressionano alcun cristiano, perché sono le stesse dei centurioni romani che chiedevano a un uomo torturato, picchiato, scarnificato, con gli occhi tumefatti, il naso rotto, i polsi e le caviglie perforate dai chiodi, di dimostrare di essere figlio di Dio scendendo dalla croce. E non scese.

Ciò che invece deve comprendere lo Stato italiano è che la celebrazione dell'eucarestia non è una forma di superstizione o di svago. Piaccia o non piaccia, l'uomo ha sempre cercato di superare le colonne d'Ercole tra il finito e l'infinito, tra la morte e l'eternità, tra il silenzio e la parola, tra la vita e la morte. Ad oggi, questo confine, non riesce ad essere percorso dalla scienza o dalla storia, ma solo da rappresentazioni simboliche e da esperienze spirituali estranee ad ogni parametro politico o giuridico.

È per questo motivo che a tanti dittatorelli sanguinari hanno sempre dato fastidio le messe: esse affermano una zona franca dal potere, un luogo della libertà umana, uno spazio personale e collettivo dove si conta perché si esiste per un Altro e non per ciò che si è o per ciò che si fa. A messa, uno vale uno. E vale molto.

PAOLO MANINCHEDDA
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