L a politica italiana ha raggiunto un livello di bizantinismo imbarazzante. Non sorprende perciò constatare come l'attuale fase possa essere definita del “tutti contro tutti”, ma anche del “tutti possono stare con tutti”. L'importante è raggiungere l'obiettivo di conservare il potere. Un potere che in realtà si manifesta con la primitiva richiesta di sopravvivere politicamente: scopo fondamentale per un ceto politico mediocre e senza un'alternativa nella vita reale. Da qui si spiega l'irragionevole longevità di un esecutivo attaccato da tutti e apparentemente sostenuto da nessuno.

U n governo incapace di promuovere persino un qualche minimo provvedimento di carattere fiscale, ma che trova poi una compatta maggioranza in parlamento ogniqualvolta si paventa l'ipotesi di uno scioglimento anticipato. Intorno a questo paradosso si è costruita l'inspiegabile vitalità di un Parlamento il cui unico merito è garantire ad alcune centinaia di deputati e senatori di restare in carica. Su questi pendono, infatti, due tremende spade di Damocle: le elezioni anticipate e il referendum sul taglio di un terzo della rappresentanza.

Il primo rischio sembra scongiurato dalla granitica certezza che molti eletti nelle file del Movimento 5 Stelle, quasi un terzo del parlamento, non avranno alcuna possibilità di rientrare né alla Camera né al Senato, alla luce dello sgretolamento del proprio patrimonio elettorale. Questi, si badi bene, non necessariamente ancora aderenti al M5S, si rivelano essere i più disponibili sostenitori di qualsiasi esecutivo, purché si allunghi l'esistenza della loro ultima legislatura. Il secondo pericolo che incombe è ancora più grottesco: il referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari che porterebbe il contingente ad appena 600 unità rispetto agli attuali mille. Si tratta di un provvedimento unico nel suo genere, perché una riduzione così drastica non è mai stata realizzata in Italia e neppure in Europa. È stata approvata “pistola alla tempia”: cioè grazie a un furore popolare e populistico, e non in seguito a una razionale volontà di riformare il sistema rappresentativo. Non a caso dopo l'unanime approvazione del taglio, stiamo assistendo al tentativo di dilatarne tempi e modalità e all'affannosa ricerca di cavilli e strumenti per rinviare almeno di un'altra legislatura la completa vigenza del provvedimento. “Tirare a campare è meglio che tirare le cuoia”, ammoniva Andreotti: infatti votare nuovamente con un sistema che garantisca ancora mille seggi è meglio che avviare una drammatica consultazione che imponga ad almeno 400 parlamentari uscenti di sentirsi già fuori da Montecitorio e Palazzo Madama. Da qui il ricorso a bizantinismi del XXI secolo: raccolta firme per un referendum contro il taglio dei parlamentari e predisposizione di una nuova, l'ennesima, legge elettorale che garantisca un maggiore controllo sui candidati eletti. Il problema ancora una volta non è legato all'eccessivo affollamento del Parlamento, visto che i costi delle istituzioni resteranno pressoché invariati, ma alla qualità e all'autonomia degli eletti. Ancora una volta chi selezionerà e con quali criteri i candidati alla Camera e al Senato? La riduzione di questi si tradurrà magicamente nella loro maggiore preparazione tecnica e in un più elevato spessore politico? Ne dubitiamo fortemente, poiché semmai avverrà il contrario, dato che la loro riduzione comporterà un peso maggiore delle segreterie e delle leadership che sceglieranno con cura i candidati fra i fedelissimi e non fra i migliori.

MARCO PIGNOTTI

UNIVERSITÀ DI CAGLIARI
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