C onfesso: quando la direzione dell'Unione mi ha chiesto di scrivere un editoriale sull'Ilva, ieri, mi volevo dare malato. Ero tentato perché in queste ore, chi ha a cuore il bene dell'Italia, e soprattutto quella quota vitale di 1,5% del Pil prodotto dalla più grande industria siderurgica d'Europa, deve combattere con due diverse forme di pericolosa demagogia.

Da un lato ci sono - mi scusino gli interessati - dei matti: simpatici matti, ma matti. Estremisti, sognatori, teorici della cosiddetta “decrescita felice”, del tutto fuori dalla realtà e quindi convinti che chiudere l'impianto sia una trovata geniale. L'Ilva avvelena, ci dicono anche in queste ore, l'acciaio costa meno farlo nel Terzo mondo, spiegano, bisogna dire no al ricatto salute/lavoro (cancellando la produzione, ovviamente). Come spesso capita, partendo da tre affermazioni parzialmente vere (purtroppo) propongono una soluzione del tutto demenziale: trasformare l'acciaieria di Taranto in un sito di itticultura per produrre le cozze pelose, o - questo lo disse addirittura Beppe Grillo - “in un grande ecoparco” (ovviamente mandando subito a casa 10mila lavoratori diretti e altri 10mila dell'indotto).

In altri Paesi, quando ciò accade si chiama direttamente il 118, qui da noi - purtroppo - li stiamo ad ascoltare, e se prevalesse questo progetto di presunta riconversione la fabbrica resterebbe come una enorme cattedrale abbandonata e venefica, come è già accaduto a Porto Torres, come accade in tutto il Sud deindustrializzato. (...)

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