N on è facile comprendere se qui in Sardegna, ad iniziare dagli esponenti politici, si sia ben valutato l'effetto che il potenziamento delle autonomie regionali, come richieste dal Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, potrebbe avere nei confronti delle capacità dello Stato di esercitare una redistribuzione equa delle entrate fiscali fra tutti i cittadini della Repubblica.

Anche perché quelle richieste, più che a maggiori poteri, mirano a poter gestire la quasi totalità del gettito fiscale riscosso, sottraendo così allo Stato la possibilità di esercitare le necessarie funzioni perequative fra regioni della polpa e regioni dell'osso, per usare la classica definizione di Manlio Rossi Doria. Andando così ad incidere negativamente su quel principio di equità che vorrebbe gli investimenti statali parametrati al numero degli abitanti d'ogni singola regione. Con la Sardegna, ad esempio, che ha visto gli investimenti, come effettuati dallo Stato e dalle grandi società pubbliche (FS, Anas, ecc.), fermarsi a neppure un terzo di quelli goduti da veneti, lombardi ed emiliani.

Non a caso, l'indice di competitività fra le regioni italiane (come indicato nel rapporto 2018 del World Economic Forum) vede Lombardia, Veneto ed Emilia ai primi posti, con un punteggio fra i 128 ed i 112 punti, ben maggiore quindi dei 69 punti della Sardegna e dei 72 della Basilicata.

Ora, per collocare queste asimmetrie in una prospettiva storica lunga, va rilevato come la spesa per interventi nazionali finalizzati allo sviluppo della nostra regione, non diversamente dalle altre del Sud, è andata progressivamente calando. (...)

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