Un anno fa, in un'intervista pubblicata su unionesarda.it, fu tra i primi in Italia a suggerire l'utilizzo dei cortisonici per curare le complicanze più gravi dell'infezione da coronavirus.

Era il 20 marzo 2020 e Antonio Macciò, 64 anni, responsabilità di oncologia ginecologica dell'ospedale Businco dell'Arnas Brotzu, partendo dai risultati di uno studio cinese, ipotizzò una stretta correlazione fra gli effetti della Covid-19 e quelli del cancro ovarico: entrambe le patologie scatenano infatti una risposta abnorme del sistema immunitario - la cosiddetta tempesta citochinica, in particolare sostenuta dall'interluchina-6 - che può portare a processi di iper infiammazione e da qui alla morte. Processi che possono essere bloccati, appunto, da un corretto uso dei farmaci cortisonici.

Così, nei mesi successivi, insieme alle colleghe Clelia Madeddu e Sara Oppi, ha approfondito il tema, sino a sfornare l'ennesimo importante studio recentemente pubblicato sulla prestigiosa rivista internazionale "Journal of Ovarian Research". Contestualmente a un altro lavoro in cui vengono chiariti i tempi e le modalità con le quali il sistema immunitario si attiva nel corso della malattia neoplastica, con sintomi che sono assolutamente sovrapponibili a quelli della Covid-19.

Un approccio clinico confermato ormai da decine di studi internazionali ma che in Italia è ancora oggi al centro di un furioso dibattito in seno alla comunità scientifica, una parte della quale - con peso specifico notevole sulle decisioni politiche - al momento continua a sconsigliare l'uso dei cortisonici se non in una fase molto avanzata della malattia e secondo molti impedisce di curare la gente a casa con i conseguenti vantaggi sociali ed economici.

Dottor Macciò, un anno dopo le rifacciamo la stessa domanda: il cortisone serve o no?

«Serve, eccome se serve. E pure in tempi precoci, cioè quando compaiono i primi segni di infiammazione. Spegnere l'infiammazione per rendere efficace l'immunità antivirale è infatti fondamentale. Noi siamo stati tra i primi a porre il problema della terapia cortisonica associata a quella anticoagulante, pubblicammo sul "Journal of Thrombosis and Haemostasis" anche due lettere, insieme ai colleghi Caocci e La Nasa, con cui suggerivamo di utilizzare i farmaci simili all'Aspirina per combattere precocemente i meccanismi di trombosi che si attivano già nelle prime fasi della malattia. All'inizio della pandemia, purtroppo, vennero letti male i dati provenienti dalla Cina, i quali dicevano che i marcatori di trombosi nel sangue erano correlati agli indici di infiammazione e dunque alla possibilità di morte».

Tanti suoi colleghi però sostengono ancora oggi che il cortisone va somministrato dopo una settimana e solo se e quando i sintomi si fanno più pesanti. Dicono infatti che l'effetto immunosoppressore di quel tipo di farmaco può essere controproducente.

«Il cortisone non ha alcun effetto collaterale se usato per brevi periodi e in fasi acute. Inoltre gli eventuali danni non confermati scientificamente sarebbero in ogni caso nettamente inferiori ai vantaggi: tutti gli studi da ogni parte del mondo ci dicono che l'uso del cortisone riduce il numero di morti. Il problema è saper scegliere il momento in cui usarlo che varia a seconda del paziente e dei sintomi, per questo è indispensabile per il successo della terapia, modularla in ragione dello stadio di malattia che viene indicato dai parametri di laboratorio. Lo ripeto, il cortisone stoppa la tempesta citochinica e agisce sull'infiammazione aspecifica che è quella che causa le conseguenze più gravi nei pazienti Covid: è come se il nostro sistema di difesa impazzisse aggredendo furiosamente le cellule infettate e provocando seri danni invece di ripararli. Il nodo dunque è disinfiammare per incrementare la risposta immunitaria».

Anche sull'uso dell'eparina per mesi nella comunità scientifica ognuno ha detto la sua: si può usare, è utilissima, non serve, è dannosa. Il caos.

«Noi abbiamo detto sin da subito che l'eparina era fondamentale e che non aveva alcun necessità di protocolli sperimentali perché le caratteristiche del paziente Covid-19 giustificavano di per se l'uso di farmaci anticoagulanti. Purtroppo per mesi questi protocolli terapeutici non sono entrati nella pratica clinica e questo ci è costato caro».

Si sarebbero potute risparmiare tante vite?

«Certamente, fa male dirlo ma purtroppo soprattutto nelle fasi iniziali della pandemia è stato così. Se aspetto quei famosi sette giorni per iniziare una terapia tutte le dinamiche peggiori sono già avvenute: ci sarà un'infiammazione da tempesta citochinica con associate trombosi, immunodepressione, anemia. Le faccio un esempio: se opero un tumore allo stadio uno il paziente probabilmente guarisce, se lo opero allo stadio tre, probabilmente no. È la stessa cosa. Noi ci siamo basati su nostri studi di oltre 20 anni, tutte queste dinamiche le abbiamo dimostrate per primi studiando il cancro dell'ovaio: l'interluchina-6 è la citochina chiave delle donne col cancro dell'ovaio e ancora oggi è il loro nemico più temibile perché induce infiammazione aspecifica, trombosi, mancanza di appetito e perdita di peso. Spegnere i macrofagi che la producono è fondamentale e ciò può avvenire con successo usando il cortisone associato a una terapia anticoagulante.

Allora perché tutte queste polemiche nella comunità medica che finiscono solo per disorientare i cittadini?

«Guardi, io credo che si sia persa di vista la regola scientifica che impone lo studio delle basi biologiche delle malattie. Noi dobbiamo lavorare nelle prime fasi della risposta immunitaria non quando questa ha ormai ha fatto e subito danni irreversibili. Il responsabile dell'infezione è il coronavirus ma la COVID-19 è una malattia da infiammazione sostenuta principalmente dai macrofagi: come la combatto? O con i farmaci antivirali che ancora non abbiamo, o con i vaccini che bloccano la progressione del virus o con i farmaci, da somministrare tempestivamente, che combattono i sintomi legati all'infiammazione. Serve un protocollo clinico chiaro, che ancora manca. Solo così, mentre attendiamo il completamento della campagna vaccinale, si potranno scongiurare altre morti evitabili, direi decisamente evitabili».
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