Sedici anni di indagine, la prima in Italia a scardinare consuetudini nell'utilizzo del denaro pubblico nella grande maggioranza malsane, 104 rappresentanti del popolo sotto inchiesta (92 dei quali finito a processo per peculato), 21 condanne (al momento), diciassette delle quali definitive.

La maxi inchiesta avviata nel 2005 per i maltrattamenti subiti da una dipendente del Gruppo misto, e dal 2009 andata a scandagliare il funzionamento dei fondi ai gruppi per valutare la liceità delle spese sostenute dai consiglieri regionali della tredicesima (2004-2009) e quattordicesima legislatura (2009-2014), ha cambiato abitudini consolidate nei palazzi del governo isolano e anche le regole di uso dei denari. Maglie di controllo più strette e limitazione a una possibilità di utilizzo che nei decenni precedenti aveva dato ampio margine alla fantasia dei protagonisti (non tutti): dai libri antichi all'argenteria, dagli spuntini con la "vitella grassa" al matrimonio sfarzoso, dalle coppe e le targhe ai dolci e legumi, ai vini, ai pasti in ristorante, ai biglietti per spettacoli e persino ai necrologi. Ogni cosa offerta dai contribuenti sardi, perché quei 2.500 euro previsti ogni mese per ciascun consigliere per tutta la legislatura (cinque anni) erano destinati al gruppo di appartenenza, non al singolo politico, e dovevano essere spesi per finalità istituzionali, non per interessi privati come invece - in base a quanto ricostruito dalla Procura e confermato dai Tribunali - molto spesso accadeva. Rappresentavano un contributo per l'attività politico-istituzionale dei singoli gruppi.

Il palazzo del Consiglio regionale\r (foto archivio L'Unione Sarda)
Il palazzo del Consiglio regionale\r (foto archivio L'Unione Sarda)
Il palazzo del Consiglio regionale (foto archivio L'Unione Sarda)

Eppure all'inizio del terremoto non pochi in Consiglio regionale avevano gridato all'invasione di campo da parte della magistratura, tanto da arrivare quasi a uno scontro istituzionale quando, era il maggio 2009, i carabinieri e finanzieri della sezione di polizia giudiziaria andati in Consiglio regionale su ordine del sostituto procuratore Marco Cocco per acquisire nuova documentazione si erano dovuti fermare nella hall, bloccati da un avvocato il quale aveva spiegato loro che quella era una sede istituzionale e godeva delle relative guarentigie. Come il Parlamento. Un cambio di rotta sostanziale rispetto alle visite precedenti, quando gli investigatori avevano bussato alle porte del palazzo di via Roma, erano saliti nell'ufficio della funzionaria che con la sua denuncia aveva dato il la all'inchiesta (Ornella Piredda, dipendente del Gruppo misto) e avevano portato via documenti necessari ad andare avanti negli approfondimenti, in quel momento in corso contro ignoti. Pochi mesi prima l'allora presidente del Consiglio Giacomo Spissu aveva incontrato il procuratore capo Mauro Mura e il pm Cocco consegnando i documenti richiesti sottolineando l'autonomia dell'organo legislativo e sostenendo che fosse tutto in regola. Poi la virata. Che ne aveva innescata un'altra: a ottobre era uscita la notizia dell'iscrizione sul registro degli indagati di 23 consiglieri regionali della legislatura 2004-2009 (dodici sono stati ritenuti responsabili in Cassazione, uno ha goduto della prescrizione dopo la condanna in primo grado, alcuni sono morti, altri sono stati assolti), e a novembre la Procura aveva sequestrato i conti bancari di due gruppi così da verificare chi aveva incassato il denaro e come lo aveva utilizzato.

Un'accelerata la cui origine affondava le radici nel 2005, quando la funzionaria regionale Piredda compiva dieci anni di lavoro tra i vari gruppi del Consiglio. In quel periodo, grazie a una transazione alla Commissione provinciale del lavoro, aveva ottenuto una qualifica superiore e 60 mila euro coi quali aveva comprato un appartamento. A giugno di quell'anno però era stata trasferita al Gruppo Misto, era stata declassata, aveva subito una riduzione di stipendio, non aveva più potuto pagare il mutuo e aveva venduto la casa. Subito dopo aveva posto il problema della rendicontazione dei fondi al presidente del Gruppo misto, che l'aveva isolata e nel 2008, mentre lei era assente per malattia, trasferita in una stanza dove il capogruppo aveva fatto trasportare e lasciare incustoditi i suoi beni. Non c'era internet e neanche la possibilità di fare telefonate interurbane. Poco dopo era arrivato l'esposto in Procura. La prima scossa di un terremoto che ancora oggi fa sentire i suoi effetti.

Il pm aveva aperto un'inchiesta per mobbing, poi la dirigente aveva parlato della ripartizione dei fondi ai gruppi, di quei 2.500 euro destinati all'attività politico-istituzionale dei gruppi, 12 milioni di euro annuali sul cui utilizzo si doveva render conto a fine anno secondo uno schema preciso. L'ipotesi di reato era stata cambiata in abuso d'ufficio: i fondi finivano ai gruppi ma c'era il sospetto che i loro presidenti e amministratori dessero ogni mese il denaro a ciascun consigliere a prescindere dall'attività svolta. Nell'ottobre 2009 si era passati a contestare il peculato e la domanda cui la Procura aveva deciso di dare una risposta era diventata: i soldi erano effettivamente spesi per l'attività politico-istituzionale? L'ex Presidente del Consiglio regionale Giacomo Spissu aveva sostenuto che fosse "tutto in regola" e sottolineato "l'autonomia dell'organo legislativo". Altri colleghi avevano sostenuto fosse il pm "a dover provare la destinazione illecita di quei fondi", mentre invece "qui si chiede a noi di dimostrare come siano stati spesi" e comunque "la legge non prevede i giustificativi delle spese da parte dei singoli consiglieri".

Ben diverse le convinzioni del pm (passate poi al vaglio di parecchi giudici, Cassazione compresa): i soldi erano stati usati per stipendi e contributi alle segretarie nonostante apposite indennità, affitto di uffici e appartamenti, acquisto di auto, quotidiani, periodici, riviste e libri, contributi per convegni su transumanza e balli tradizionali, versamenti al partito utili a detrazioni fiscali. Qualcuno aveva pagato un Capodanno a Milano con signora per poi dire: "Era un errore". Ed era cominciato il processo. Solo il primo di una serie, condito anche da alcuni clamorosi arresti nel novembre 2013.

Al momento le sentenze definitive hanno riguardato 59 consiglieri. Sei di loro sono stati protagonisti di una doppia decisione perché coinvolti in due filoni diversi in quanto componenti di partiti differenti o eletti in due legislature. Diciassette sono stati ritenuti definitivamente responsabili dalla Cassazione, che ha rispedito le posizioni di nove di loro in Appello solo per la quantificazione esatta della pena al netto delle prescrizioni (e di alcune spese che potrebbero essere ritenute lecite in quanto legislative). Tre hanno patteggiato, dieci sono stati assolti, per dodici è arrivata l'archiviazione, per altri diciassette è stata dichiarata la prescrizione (l'ultima volta nell'udienza del 24 marzo). Restano da definire altre 66 posizioni, altrettanti consiglieri ed ex consiglieri regionali in alcuni casi già coinvolti nelle tranche precedenti dell'inchiesta. Quarantuno sono sotto processo, altri 21 (cinque dei quali fanno parte anche della lista precedente) sono sotto indagine, tre sono stati condannati in primo grado, uno in Appello. Tra loro senatori, parlamentari, ex assessori, sindaci, presidenti di commissione, amministratori di società.

Molti - non tutti - nel corso dei diversi procedimenti hanno sostenuto che nessuna pezza giustificativa era prevista, e che gli esborsi erano stati sostenuti per pagare collaboratori, segretari, autisti, semplici aiutanti che tiravano fuori idee su convegni, proposte di legge, iniziative di cui discutere davanti agli elettori in mezza Isola così da valutare assieme cosa fare per la Sardegna. Ma di rado sono stati tirati fuori documenti, ricevute, carte che dimostrassero l'effettivo svolgimento di quel lavoro. Per non parlare del versamento dei contributi ai collaboratori: quasi nulla. Anche sulla presunta inversione dell'onere della prova è intervenuta in qualche modo la Cassazione: nella sentenza con cui riconosce la responsabilità dell'ex sottosegretaria (nonché ex europarlamentare del Pd) Francesca Barracciu, i giudici hanno negato si fosse in presenza della "non consentita inversione della prova" (non il pm che deve dimostrare la responsabilità, come previsto, ma la difesa che non riesce a dimostrare l'innocenza) perché l'accertamento del reato deriva "anche da elementi indiziari" e in questo caso Barracciu aveva avuto "l'erogazione periodica di mille euro" per oltre 77mila "con bonifici privi di causale sulle finalità istituzionali"; i soldi entravano direttamente sul suo "conto corrente privato, dove si confondevano con le risorse personali"; non era stato rispettato "l'esistente e specifico obbligo di rendiconto", dunque mancavano "le giustificazioni". Del resto I fondi ai gruppi avevano "un vincolo specifico": servivano a sostenere solo le "spese" ben individuate "dalle normative regionali e anche dalla legislazione nazionale". In Sardegna non c'era l'obbligo "di allegare al rendiconto" il dettaglio del singolo esborso, ma questo "non implicava" non si dovesse "comunque giustificare" l'uso di quel denaro pubblico. Non c'era "la piena discrezionalità nell'utilizzo dei contributi".

Sono passati 12 anni, ancora la vicenda non è chiusa.
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