Il 10 marzo 2020 - esattamente un anno fa - l'Italia (ri)scoprì il coprifuoco. Il Paese si svegliò sospeso nell'atmosfera d'un altro secolo, quello della seconda guerra mondiale. Dalla notte al giorno i cittadini impararono una parola inglese con la quale avrebbero imparato a convivere: lockdown. E scoprirono virtù e difetti della vita forzata in famiglia.

Il decreto La notte precedente in diretta tivvù il premier Giuseppe Conte aveva annunciato la firma del famigerato decreto del presidente del Consiglio, per tutti dpcm: «Non ci sarà più una zona rossa, non ci saranno più zona uno e zona due, ma un'Italia zona protetta. Saranno da evitare gli spostamenti salvo tre ragioni: comprovate questioni di lavoro, casi di necessità e motivi di salute». Il perchè era chiaro: «Siamo consapevoli di quanto sia difficile modificare le nostre abitudini. Ma purtroppo non c'è tempo. I numeri ci dicono di una crescita importante dei contagi, dei ricoveri in terapia intensiva e dei decessi. Ai loro cari va la vicinanza di tutti gli italiani. Le nostre abitudini vanno cambiate ora. Dobbiamo rinunciare tutti a qualcosa per il bene dell'Italia, e lo dobbiamo fare subito. Adotteremo misure più forti per contenere il più possibile l'avanzata del coronavirus e per tutelare la salute di tutti i cittadini». Grave sottovalutazione La commise una platea di volti noti ben assortita. Indimenticata l'improvvida iniziativa di Nicola Zingaretti, allora segretario del partito democratico nel pieno delle sue funzioni, che il 27 febbraio prese «un aperitivo contro il panico» ai Navigli di Milano. Il leader della Lega Matteo Salvini non volle sfigurare e lo stesso giorno postò sui social un video in cui esortava a «riaprire tutto». Erano i giorni dell'infelice campagna Milano non si ferma, sponsorizzata dal sindaco Giuseppe Sala. Certi quotidiani non furono da meno: "Virus, ora si esagera. Diamoci tutti una calmata" (Libero), "Riapriamo Milano" (Repubblica), "Morti di Coronavirus in Italia? Zero" (Il Giorno). Un tappeto di parole che nascose per giorni l'esplosione della curva dei contagi. Alcuni uomini e donne di scienza non furono da meno. Maria Rita Gismondo, direttrice del laboratorio dell'ospedale Sacco di Milano, ai primi di marzo ottenne la ribalta mediatica per aver definito il Covid-19 «una problematica appena superiore all'influenza». Oggi i numeri dimostrano il contrario: il virus in dodici mesi ha ucciso oltre centomila persone in Italia e 1.187 in Sardegna.

Un tempo infinito Il lockdown durò sessantanove giorni. La vita aveva preso un'altra forma senza preavviso: vietato sposarsi o celebrare funerali, chiuse palestre, piscine, cinema, teatri, musei, negozi, centri culturali, centri benessere, discoteche e stazioni sciistiche, annullata ogni manifestazione sportiva, sospesi gli esami per la patente. Ci si metteva in fila davanti ai supermercati, bardati con guanti e mascherina senza trascurare la distanza di sicurezza. Le chiusure avrebbero dovuto abbracciare un periodo limitato, fino al 3 aprile. Andò in un altro modo. I dati Istat Un periodo che è già nei libri di storia non poteva essere ignorato dall'istituto italiano di statistica. E infatti ad aprile erano già disponibili i risultati delle prime rilevazioni. Che sostanzialmente fotografavano l'atteggiamento degli italiani. In sintesi: 1) tre cittadini su quattro avevano usato «parole di significato positivo per descrivere il clima familiare vissuto nella Fase 1 dell'emergenza Covid-19», la più critica; 2) «alta la fiducia espressa verso il personale medico e paramedico del Servizio sanitario nazionale con un punteggio medio pari a 9 (in una scala da 0 a 10) e verso la Protezione civile (8,7)»; 3) «il 91,2 per cento dei cittadini ha considerato utili le regole imposte per contrastare l'evoluzione della pandemia. L'89,5 per cento ha percepito come "chiare" le indicazioni su come comportarsi per contenere il contagio». Il lockdown è scattato un anno fa. Potrebbe ricapitare domani.
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