C'è stato il tempo dell'orgoglio tipico delle popolazioni insulari, e anche di un certo disprezzo - leggibile dai toni usati dagli esponenti politici britannici - nei confronti di quelli che non saranno proprio fratelli, ma almeno cugini sì: gli altri Paesi europei dell'Unione. Poi, forse c'è stato il tempo del ripensamento eventuale ma mai ammesso, e del tirare lungo senza prendere alcuna decisione: il Regno Unito, dopo il divorzio dall'Unione europea sancito con un referendum e poi attuato a gennaio di quest'anno, ha sempre affermato di volersi liberare di lacci e lacciuoli imprescindibili dall'appartenenza a qualcosa di più grande (l'Ue, appunto). Ma ai vantaggi no, a quelli non vuole tuttora rinunciare.

Boccia ieri, boccia oggi, alla fine il Trattato non si è ancora fatto e i tempi stanno per scadere: il "No deal", cioè l'uscita della Gran Bretagna dall'Unione senza alcun accordo condiviso, non sarà più domani. Perché è già ora di parlare di oggi, visto che il capo negoziatore per la Brexit incaricato dall'Unione, Michel Barnier, parla di "momento della verità": per un accordo che entri in vigore il prossimo primo gennaio, il tempo si misura più in ore che in giorni. Anche Ursula Von der Leyen, la presidente della Commissione europea sempre tanto prudente nelle dichiarazioni (tranne quando parla dell'Italia, ma questa è un'altra storia), ha twittato che "i negoziati stanno facendo importanti progressi, ma le divergenze rimangono, soprattutto per quanto riguarda la pesca".

Ma senza accordo, che succede? Un sacco di cose, e non c'è alcuna sicurezza che siano per la gran parte buone dal punto di vista di chi ha deciso di lasciarci, cioè i britannici. Anzi. E il 31 dicembre, che sancisce la fine del periodo transitorio dopo il quale la Brexit dovrà essere compiuta, è proprio dietro l'angolo. Senza accordo, il Regno Unito del presidente Boris Johnson rischia di essere, per il diritto dei 26 Paesi dell'Ue, come l'Egitto, o l'Ucraina, o il Marocco: uno stato straniero punto e basta.

Fermo restando che i rapporti con l'Irlanda del Nord risentiranno assai di meno della Brexit, considerato che esistono altri accordi bilaterali, la Commissione europea ha già messo in guardia dalle gravi conseguenze che subiranno le persone e i commerci a partire dal primo gennaio 2021, se l'accordo non ci sarà. L'assenza di formalità doganali tra il Regno di Elisabetta e l'Ue diventerebbe un ricordo: sono in arrivo tempi più lunghi alla frontiera e, soprattutto, «maggiori oneri amministrativi». Già, perché l'Uk sarebbe a tutti gli effetti uno Stato straniero. Il commercio internazionale avrà bisogno di nuovi Eori, cioè codici d'identificazione per l'export in Europa, e a fornirli dovrà essere l'Ue: quelli di Londra varranno quanto la carta straccia. Di quelle autorizzazioni, stima la Gran Bretagna, ne serviranno 270 milioni in più l'anno. Per le esportazioni, sempre Londra dovrà pagare accise e Iva e dovrà anche rispettare le norme comunitarie sulle "regole di origine", non valide per i commerci interni nell'Ue, di cui si ritroverà invece all'esterno.

È un punto centrale della Brexit, questo, considerato che il Regno Unito vorrebbe diventare un centro di raccolta e smistamento per l'Unione europea, senza dazi e tasse in più, ma non può farlo senza un accordo vantaggioso praticamente solo per i britannici. I commerci europei saranno dunque da ridisegnare da capo e le importazioni in Gran Bretagna saranno più onerose.

C'è poi il settore dei servizi, particolarmente trasporti, sistema finanziario e bancario, audiovisivi ed energia: chi li assicura, ma è vero anche per i professionisti, dovrà dimostrare il rispetto delle condizioni stabilite dall'Ue. Di fatto, significa non poter operare nell'Unione, che oltretutto non riconoscerà più le qualifiche professionali valide entro i propri confini comunitari, ma non oltre. Nei servizi finanziari, i cittadini dello United Kingdom saranno trattati come Paesi stranieri, e dovranno anche rispettare le norme comunitarie sulla protezione dei dati personali (la privacy).

Ci sono invece indicazioni per i trasporti tra britannici e i 26 dell'Ue: in mancanza di accordi, l'Unione ha predisposto piani d'emergenza per i collegamenti aerei e stradali fino al 30 giugno 2021, purché lo Stato di Johnson assicuri uguale trattamento. Gli autotrasportatori del Regno avranno bisogno dei permessi di guida, ma l'Ue ha accordato loro altri sei mesi per provvedere. Non a tutti: l'hanno in tasca solo in 1.600, cioè pochissimi, e per gli altri si sta ancora negoziando.

E poi c'è la pesca nel Canale della Manica, dalla quale potrebbero essere estromessi i professionisti di Belgio e Francia, tranne quelli di Bruges: Carlo II, nel 1666, firmò una concessione nei confronti dei pescatori della città che consentiva loro di operare nelle acque inglesi. Ma che quell'accordo valga ancora, superato com'è dalle norme successive, è tutt'altro che certo. E c'è anche la questione del tunnel sotto la Manica: una frontiera, con i controlli che ne derivano, potrebbe creare ingorghi agli ingressi e alle uscite di Gran Bretagna e Francia.

A tutto questo, e a molto altro, sarebbero dovuti servire i negoziati tra Ue e Regno Unito, che non hanno finora condotto a soluzioni stabili nel tempo. Il Governo di Johnson finora ha opposto rigidità nei negoziati con l'Unione europea, ma niente è più rigido di una scadenza: il 31 dicembre, pochi giorni. Qui o si fa un trattato o il Regno Unito diventerà un'isola isolata.
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