"Al milite ignoto". Attorno a queste parole scolpite sul marmo di una sepoltura, l'Italia del 1921, trovò per qualche istante un forte sentimento di Patria, dimenticando per un po' tutta l'amarezza di una vittoria mutilata. Così, il poeta vate Gabriele D'Annunzio, battezzò il successo ottenuto dall'Italia alla fine della Grande Guerra: mutilato perché l'Italia aveva dovuto cedere allo straniero alcune delle terre irredente, per cui nel 1915 era entrata nel conflitto, l'Istria e la Dalmazia. Anche la dedica sul sacello custodito al Vittoriano è opera del Poeta: IGNOTO MILITI, "Al milite ignoto".

CHI ERA IL MILITE IGNOTO E l'identità di questo soldato che meritò l'omaggio di un così prestigioso italiano e l'onore degli altari religiosi e poi civili, resterà, per legge, un mistero. Possiamo solo dire chi, certamente, non fu. Non fu un militare graduato, un generale, né un capitano. Di certo si sa che il suo nome non era noto a chi, pietosamente, ne compose le spoglie. Di sicuro nessuna mostrina decorava la sua uniforme lacera, né fu possibile recuperare le piastrine che lo identificavano. Bastarono gli scarponi del regio esercito per svelare a chi lo liberò dalla terra di un remoto cimitero, forse di montagna, che si trattava di un italiano: la tela del giacchetto, lacerata e sporca di sangue, il pantalone stretto sotto il ginocchio, le bende avvolte sulla gamba, a mo' di calza. Il suo viso non era più riconoscibile e nemmeno il colore dei suoi capelli. Capelli folti di un ragazzo, si disse, sporchi di terra, sangue e lacrime. E poi più nulla, solo una bandiera a celare ciò che restava di una gioventù spenta troppo presto. Dal 4 novembre 1921, questo soldato italiano senza nome né volto ha trovato una dimora illustre a Roma, diventando il figlio, il marito, il padre di tutti i genitori, di tutte le vedove e di tutti gli orfani che attesero invano un ritorno che non ci sarebbe mai stato. Il fratello, l'amico, il fidanzato che ogni italiano e italiana nominarono silenziosamente nelle preghiere, ancorando la speranza ad un annuncio di morte che non arrivò mai, confinando tanti soldati nel limbo dell'essere "dispersi in guerra". Non ufficialmente morti, eppure mai tornati casa.

IL GENERALE DEI DISPERSI Fu il generale Giulio Dohuet, italianissimo nonostante il cognome, a proporre che ci fosse un'onorificenza ufficiale e solenne per tutti quei soldati, e furono tanti, che caddero durante la guerra, ai quali fu impossibile restituire un'identità. Douhet, pioniere, tra l'altro dell'aeronavigazione, passione che gli fruttò riconoscimenti ma anche un grave conflitto con le gerarchie militari, ebbe sempre con i suoi sottoposti un rapporto improntato a rigore marziale ma profonda vicinanza umana. Posto in congedo d'autorità e poi richiamato in servizio per la necessità delle sue innegabili capacità strategiche, ebbe sempre chiaro che, se i condottieri guadagnano statue e riconoscimenti, i veri protagonisti delle guerre sono i soldati semplici, che, per puro spirito di patria e obbedienza, spesso sacrificano le proprie vite.

La sua proposta del 1920, nata in polemica contro un altro noto generale che definì «vigliacchi» i propri soldati, trovò accoglimento in una legge approvata dal regio parlamento l'anno seguente.

LA RICERCA DEL MILITE In breve tempo si discusse e decise chi dovesse essere e come doveva essere trovato, il soldato ignoto da collocare, con tutti gli onori al Pantheon, nella Capitale. Ma subito fu chiaro che l'umile capo del figlio del popolo non poteva riposare accanto a quello dei Re. Si decise allora di seppellirlo al Vittoriano, sotto la statua della Dea Roma. Si diede ordine ai funzionari dell'esercito, riuniti in un'apposita commissione di scegliere delle salme di soldati caduti, tutte con l'unica irrinunciabile caratteristica, di essere e restare, senza nome. Si ordinò di cercare laddove il conflitto aveva infuriato: dal Carso agli Altipiani, dalle foci del Piave al Montello. Le località da cui furono prelevati gli undici corpi scelti furono Rovereto, le Dolomiti, il Grappa, il Montello, il Basso Piave, Cadore, Gorizia, il Basso Isonzo, San Michele, un tratto da Castagnevizza fino al mare. Le undici bare, tutte uguali, ispezionate affinché non vi fossero segni di riconoscimento, furono portate a Gorizia e poi nella cattedrale di Aquileia, dove arrivarono il 28 Ottobre 1921. Solo una di quelle sarebbe stata tumulata al Vittoriano.

LA MADRE ADDOLORATA Questa volta a scegliere non fu una commissione di militari: si chiese ad una donna del popolo, Maria Bergamas, di Trieste, madre di un giovanissimo Antonio, volontario del regio esercito morto in guerra e mai ritrovato. In un'atmosfera di forte commozione, Maria Bergamas, percorse lentamente la navata che ospitava le undici salme avvolte nel tricolore. Durante la notte, il picchetto d'onore, in segreto aveva più volte cambiato posizione ai feretri per evitare qualsiasi tentativo di riconoscimento. In un silenzio irreale, nonostante già una piccola folla si fosse radunata fuori dalla cattedrale, la madre addolorata sembrò cadere, vinta dallo strazio, davanti alla decima bara, gridando il nome del figlio. Quel cedimento fu interpretato come la sua scelta. Lasciati gli altri dieci "compagni" nel cimitero militare di Aquileia, il soldatino sconosciuto fu caricato sull'affusto di un cannone e iniziò il suo viaggio verso Roma. Fu posto su di un carro ferroviario progettato apposta, decorato con fiori e bandiere, scortato dai reduci pluridecorati e feriti in guerra.

L'OMAGGIO DELL'ITALIA Il viaggio, lentissimo, si svolse sulla linea ferroviaria Aquileia-Venezia-Bologna-Firenze-Roma. Sempre tra due ali di folla, anche nei tratti che attraversavano la campagna: persone comuni, reduci, giovani e vecchi, bambine e bambini lanciavano fiori recitavano preghiere e si inginocchiavano al suo passaggio. Tutti parvero dimenticare per un momento, la povertà che mordeva forte, lo strazio per le migliaia di morti, la rabbia e il rancore dei reduci per una guerra che non riconoscevano nei racconti ufficiali. Tutti sembrarono dire a quel figlio che andava a Roma a prendersi, finalmente, un po' della gloria dei Grandi: siamo gente semplice, ci capiamo senza troppe parole. Neppure il Fascismo, che stava per affacciarsi alla storia, riuscì con la sua organizzazione, a replicare il numero e la partecipazione di quella parata spontanea che fu lunga ottocento chilometri. Il fiueol, o' picciriddu, su fizu di tutto il popolo, arrivò in una Roma solenne e silenziosa, listata a lutto.

L'ALTARE DELLA PATRIA L'ultimo tratto lo fece sulle spalle di otto medaglie d'oro al valore militare, sotto un cielo novembrino, grigio piombo, che decise di piangere quel figlio con una pioggia sottile che si confuse con le lacrime di chi assistette. Poi furono discorsi, presentat arm, luccichio di medaglie, il suono del "Silenzio" da una tromba solitaria. Chiuso finalmente in quel monumento criticato perché brutto e troppo bianco, il soldatino, all'ombra della enorme statua equestre di Vittorio Emanuele, primo re d'Italia, ha potuto vedere un intero secolo di mutamenti, a volte tragici. Ed è stata la sua semplice presenza anonima, a dare un nuovo nome a quel luogo che da quel 4 Novembre 1921 si chiama Altare della patria, e che oggi, con il suo bianco, non sembra poi così male.
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