Claude Monet aveva un imperativo estetico: sfidare la velocità dell'immagine. Era la missione, quasi maniacale, che lo ha impegnato praticamente sino alla fine della sua esistenza. Fissare il momento della luce significava vincere questa battaglia. Ovvero, impressionare nella tela, grazie a un allenamento combinato di occhi e mani, il flusso del tempo. E che per definizione non può essere fermato. Perché quello che è ora, ora non lo è più. A Bologna, Palazzo Albergati, ci ha pensato il Covid a bloccare le lancette dell'orologio e a inchiodare la mostra "Monet e gli Impressionisti. Capolavori dal Musée Marmottan Monet di Parigi". Nei programmi, inizialmente dal 13 marzo al 12 luglio, poi dal 29 agosto scorso al 14 febbraio 2021. Ma tutto è appeso al muro della pandemia, alla barriera di contenimento del contagio.

Eppure da quelle sale del Sedicesimo secolo che ospitano 57 capolavori del maestro dell'Impressionismo francese e dei più importanti esponenti di quell'affascinante avventura artistica, forse si può raccogliere un sentire inedito e, a distanza di circa due secoli, un'emozione viva, per certi versi di cronaca.

IL RICHIAMO La pittura impressionista ha un suo codice identificativo, un fingerprint che permette di entrare in atmosfere colorate, fatte di paesaggi, vita, scorci della natura, fiori, piante. Ma anche ambienti e volti, persone in carne e ossa, che possono arrossire davanti al pittore o restare impassibili, assorti nei loro sprazzi di intimità. Il codice è fatto di tre parole: en-plein-air. Che scherzo del destino. Proprio quella pittura che predicava l'uscita all'aria, oggi si scontra con Dpcm, divieti e ordinanze che impongono lo stare a casa.

La mostra, giustamente, è chiusa. Ma questa pausa non guasta. Anzi, aiuta a riflettere su un preciso significato, forse meno esposto ai più, della pittura all'aperto di molte opere impressioniste. Un risvolto affatto banale. En plein air ovvero all'aperto, o meglio all'aria aperta, nasce dalla necessità di guardare il mondo, la natura nel suo mutare, istante dopo istante. Dipingerla come cambia al cambiare della luce. A costo di ripetere un'infinità di volte lo stesso soggetto. Andare sul posto e, con tavolozza e colori nei primi tubetti in metallo (fatto innovativo per quei tempi), essere per così dire fotoreporter.

IL DEBUTTO D'altra parte fu proprio il famoso fotografo francese Nadar (al secolo Gaspard-Félix Tournachon), a ospitare nel suo studio al 35 di Boulevard des Capucines a Parigi la prima mostra degli Impressionisti. Era il 15 aprile 1874. Questi giovani "ribelli" erano stati scartati dal Salon e così, capitanati da un entusiasta Claude Monet, decisero di rispondere alle accademie con un guanto di sfida: organizzare una loro esposizione dalla portata rivoluzionaria e di rottura rispetto ai canoni classici della tradizione. Che botta. Furono denigrati dalla critica in ogni dove, ma fu il loro successo. Louis Leroy bollò malamente quella esposizione liquidandola come «la mostra degli impressionisti», prendendo spunto dal quadro di Monet, "Impressione. Sole nascente". Non poteva certo immaginare il favore che fece a quegli artisti irriverenti. Che decisero, appunto, non senza una vena scanzonata e sarcastica, di adottare quel termine. Da quel momento furono ufficialmente gli Impressionisti. Il successo di quella intuizione non voluta è storia.

ALL'ARIA Lo scorso anno, ad Asti venne allestita la mostra a Palazzo Mazzetti "Monet e gli impressionisti in Normandia", 75 capolavori di Monet, Renoir, Delacroix e Courbet, regia di Vittorio Sgarbi. Che ebbe modo di commentare: «In questa mostra i protagonisti non sono gli impressionisti, ma i luoghi che diventano contenuti, una geografia dell'anima». Potremmo mutuare per Bologna. Dove prevale ancora una straordinaria lezione di rispetto e complicità con la natura. La stessa direttrice del Marmottan, Marianne Mathieu, parlando dell'esposizione bolognese ha avuto modo di rilevare in diverse occasioni: "Oggi gli impressionisti rappresentano, soprattutto nel periodo di crisi che stiamo vivendo, un rapporto autentico con la natura, la volontà di fare della natura il centro delle nostre preoccupazioni e oggi che dobbiamo affrontare il tema del clima e dell'ecologia possiamo, attraverso le loro opere, sottolineare l'importanza di questo messaggio". Così en plein air può caricarsi di significati nuovi: interiori, personali e meditativi. Etici. Uscire all'aria per molta poetica impressionista ha una forte valenza introspettiva. Anche quando l'intimità individuale si confronta con i momenti fugaci delle rumorose atmosfere della Belle époque. Ma in realtà frastuono, ritmi incalzanti e modernità con i suoi rituali, poco (o nulla) toccano questa poetica. Da lì a qualche decenni farà la sua apparizione il Futurismo. Marinetti e compagni esalteranno come non altri gli assembramenti, l'Impressionismo aveva un'altra cifra. Uscire all'aria non ha significato, solo, abbandonare le ottuse accademie dai cliché stantii della tradizione. In quel voler essere alternativi c'era, anche, la voglia di respirare una nuova aria, pulita, fatta di luce da scandagliare. Nessun assembramento, per la felicità di oggi.

IN MOSTRA Le 57 opere presenti alla mostra di Bologna rappresentano un evento straordinario nel panorama dell'arte, anche perché, per la prima volta dalla sua fondazione (1934), il Marmottan ha permesso l'uscita dalle sue mura di opere uniche da Manet a Renoir, Degas, Corot, Sisley, Caillebotte, Morisot, Boudin, Pissarro e Signac, oltre che di Monet. Capolavori della storia dell'arte custoditi gelosamente in quel museo definito la "casa dei grandi Impressionisti". Dal Ritratto di Madame Ducros (Degas) al Ritratto di Julie Manet (Renoir) e Ninfee (1916-1919 circa) di Monet. Ma anche opere inedite per il grande pubblico: Ritratto di Berthe Morisot distesa (Édouard Manet), Il ponte dell'Europa, Stazione Saint-Lazare (Claude Monet) e Fanciulla seduta con cappello bianco (Pierre Auguste Renoir).

GLI ULTIMI ANNI Monet sarà l'unico di quel gruppo di intellettuali che resterà "impressionista" fino alla fine dei suoi giorni. Molti altri suoi compagni devieranno su strade artistiche nuove, con esiti diversi, tra avanguardie e sperimentazioni.

Nel 1883, Monet si trasferisce a Giverny, in cui rimarrà per 43 anni. Qui creò gli stagni di ninfee, il tema delle sue opere più famose, iniziato nel 1899, lavorandoci per 27 anni. Rimasto solo con Blanche, la figliastra, dipinse sempre lo stesso soggetto in momenti diversi, per studiarne i cambiamenti nel tempo. Nel 1926 gli viene diagnosticato un cancro al polmone. L'uomo della luce morirà, ormai cieco, a 86 anni. Era il 6 dicembre.
© Riproduzione riservata