Duecento metri dalla costa, forse qualcosa di più. Acque basse. Troppo poco profonde perché l'onda rabbiosa delle mareggiate non raggiunga il fondale, smuovendo le sabbie, spostando i sedimenti. È in questo ambiente che poggiano e si nascondono i legni antichi del relitto di una nave possente, tesoro per archeologi e storia sarda. Lo hanno scoperto negli anni Settanta sub dilettanti e pescatori sportivi, hanno cominciato a studiarlo parecchi anni fa (troppi perché non sia mai stato indagato a fondo e le ricerche completate) gli archeologi della Soprintendenza. Con "tuffi" più recenti quando sull'area occupata dalla nave sarebbe dovuto sorgere il nuovo porto peschereccio di Sant'Elia. Ebbene, per evitare che il relitto finisse inglobato nel bacino dell'approdo, il progetto è stato in parte modificato ed è stata spostata la linea direttrice dello scalo.

Imbarcazione salva, insomma. A disposizione degli archeosub che potranno, quando avranno a disposizione i fondi per nuove immersioni, prospezioni e indagini approfondite, tornare su quel fondale per tentare di svelare i misteri della nave di Sant'Elia.

Per ora restano solo le ipotesi. Suggestive e in attesa di conferme. Intanto sull'origine e sulla datazione di questo scafo adagiato su un fondale di circa sette, otto metri di profondità. Si tratta veramente dei resti di un'imbarcazione inglese del 1600, come farebbero pensare le osservazioni fatte dagli studiosi guidati dall'archeologo subacqueo Ignazio Sanna. Il tipo di legno (la quercia con cui sono state realizzate le ordinate e la chiglia), le tecniche costruttive dello e non ultima una pipa da tabacco recuperata durante le immersioni del 2014 e ancora i resti perfettamente conservati di una botte, portano davvero a settentrione, a quel mare del nord del Mondo da dove la nave sarebbe partita per poi infilarsi nel Mediterraneo e finire il suo viaggio nelle acque della Sardegna, a due passi da Cagliari. E sprofondare.

Sono molte, anche in questo caso, le domande che attendono risposte. Fu il maltempo a decretare la "morte" della nave? Fu una violenta mareggiata a far colare a piccolo il bastimento? Oppure quel giorno tragico ben altri eventi complicarono la vita agli uomini della Corona? Ci sono per esempio tracce di legni bruciati (e vasellame fuso dalle fiamme e dal calore) a suggerire agli archeologi che potrebbe essere stato un incendio, divampato improvvisamente a bordo, a danneggiare irreparabilmente l'imbarcazione per poi farla sparire tra i flutti. E chissà, forse mareggiata e maltempo esplosero in simultanea. Lo stesso giorno, alla stessa ora.

Il relitto poggia su una secca parallela al litorale che i formidabili navigatori francesi, tra il 1700 e il 1800 avevano tracciato sulle loro carte nautiche, evidenziando così la pericolosità ai naviganti che si fossero trovati a solcare questo tratto di mare. Rischio d'incaglio, soprattutto in caso di bassa marea. In quelle carte, inoltre - lo hanno esaminato gli archeologi - furono indicati i anche i punti d'ancoraggio sicuri che si trovano ben più al largo, a quasi un miglio dal litorale. Documenti sacri per i lupi di mare del Settecento e dell'Ottocento in cui i francesi avevano riportato anche le cosiddette "mire", i riferimenti a terra per ritrovare, in mare, i punti corretti per gettare l'ancora e restare sicuri alla fonda. Tra queste mire la chiesa di Sant'Eulalia da traguardare con la torre.

"I grandi velieri - aveva puntualizzato durante la campagna di scavo, Ignazio Sanna - si sistemavano alla fonda e chi decideva di scendere a terra lo faceva con imbarcazioni ben più piccole".

Il lavoro d'indagine si è purtroppo fermato e le domande, almeno per ora, non potranno essere soddisfatte.

Restano le scoperte. Parziali quanto si vuole, ma sufficienti almeno a far decollare le ipotesi. Inglese, quasi certamente la nave, anche se l'ipotesi che si possa anche trattare di un bastimento olandese non è stata del tutto accantonata. Il dubbio era stato stimolato dal rinvenimento di una moneta d'argento, un dollar, precursore di quello poi coniato in America, utilizzato in Inghilterra ma anche in Olanda e Germania (chiamato, qui, tallero). Poi quella pipetta in terracotta tipica del nord Europa, di minuscole dimensioni, che le indagini fatte dagli archeologici hanno fatto risalire agli anni in cui il Seicento lasciava campo libero al 1700. Venivano utilizzate per assaporare il tabacco, importato dall'America ma non ancora diffuso nella società. Cento anni dopo quelle stesse pipe raddoppiarono di volume e divennero strumento di uso quotidiano.

Ci fu un altro elemento, trovato durante lo scavo, a confermare l'origine nordica della nave di Sant'Elia. Un "pezzo" di metallo, in ottimo stato di conservazione, appartenente ad un sestante, lo strumento con cui il comandante calcolava la posizione della nave con scarti minimi. Apparecchiatura presente nelle navi transoceaniche e non in quelle che solcavano le onde del Mediterraneo. Il resto di quello strumento è ancora lì, sott'acqua, sotto la sabbia che di nuovo ricopre il relitto per l'intera sua lunghezza di venticinque, trenta metri. Insieme al grosso carico di ardesia le cui lamine - lo avevano scoperto i subacquei della Soprintendenza durante le ultime immersioni - erano state sistemate nella stiva "a coltello" per evitare di muoversi durante la navigazione e in particolare quando il mare aveva cominciato a fare le bizze. Materiali estratti nel Galles ma anche nel nord della Spagna, al confine con il Portogallo. Ed è forse proprio qui che la nave inglese caricò a bordo l'ardesia durante la sua rotta verso Gibilterra e il Mediterraneo, come hanno fatto pensare gli esami al microscopio di alcune lamime riportate in superficie dai sommozzatori archeologi.

La storia di questo relitto è ancora tutta da scrivere. Dopo essere affiorata brevemente grazie a due interventi di ricerca e scavo, velocemente è tornata nel suo cimitero sommerso. E non solo per mancanza di fondi quanto per un disinteresse che sembra affliggere, in Sardegna, l'archeologia subacquea.
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