Se non fosse stato per sua moglie Michelle donna di grandissimo talento, le magiche parole "Yes We Can", diventate lo slogan trionfante che ha portato il primo candidato afroamericano alla Casa Bianca, sarebbero state tagliate dal celebre discorso dell'8 gennaio 2008, pronunciato da Barack Obama dopo aver conquistato il secondo posto alle primarie del New Hampshire, tappa che farà decollare la sua candidatura.

E dire che il futuro presidente - come rivelò in un'intervista al New York Times l'allora stratega del futuro presidente, David Axelrod - considerava lo slogan «trito». Come sappiamo, non solo si è rivelato semplice ed efficace, ma l'uso del noi, che sposta l'accento dalla propria persona alla collettività, è stata la carta vincente. La necessità di trovare un messaggio che va dritto al cuore degli elettori è sempre stato uno dei lavori più difficili degli staff elettorali. Gli slogan racchiudono visioni e obiettivi in una manciata di parole. Così Donald Trump invoca "America first", l'America sopra ogni cosa, con tutte le conseguenze che conosciamo; il suo obiettivo ora è "Make America Great Again", "facciamo di nuovo grande l'America", declinato anche come "Keep America Great", "manteniamo grande l'America", per dare un segno di continuità con la strada percorsa in questi quattro anni. Joe Biden invece scommette sull'idea del domani e sul concetto di missione: "Unite for a better future", "uniti per un futuro migliore" è lo slogan scelto dal candidato democratico. «Sarò un presidente che fa appello al meglio che c'è in noi, non al peggio», ha detto tra gli applausi a Gettysburg, il 7 ottobre. Sappiamo tutto (o quasi) degli ultimi duellanti in ordine di tempo, ma ci ricordiamo il messaggio di Ronald Reagan o quello di Bill Clinton? E tornando ancora indietro nel tempo da quali parole è stata segnata la campagna elettorale di John F. Kennedy? Per certo la sua corsa alla Casa Bianca segnò una svolta nel modo di comunicare, a cominciare dal celebre duello in televisione. Fu Kennedy a proporlo e Richard Nixon ad accettarlo. E da 60 anni è un appuntamento irrinunciabile della politica americana. Ma andiamo con ordine. Al di là dei giochi di parole più o meno efficaci, gli slogan si dividono in quelli che fanno diretto riferimento alla propria persona e chiedono quindi all'elettore di identificarsi con lui, oppure quelli che allargano l'orizzonte sul destino della nazione che si vuole guidare. Nel primo caso un esempio lampante è il messaggio che nel 1952 accompagnò l'elezione di Dwight Eisenhower: "I like Ike" "mi piace Ike", diminutivo del generale che quattro anni più tardi vinse con "I Still Like Ike", "Ike mi piace ancora". Da buon militare aveva una concretezza assoluta: poche parole, chiare, efficaci, sicure.

John Fitzgerald Kennedy, invece, nella campagna elettorale del 1960 spostò l'accento sull'America, nazione per la quale era arrivato il momento della grandezza, "A time for greatness", una grandiosità che la storia oggi attribuisce all'uomo della "Nuova frontiera". La sua America era un Paese con forti tensioni razziali e soprattutto era iniziata la corsa alla conquista dello spazio nella quale i sovietici erano in deciso vantaggio. Un altro presidente che ha cambiato modo di comunicare è certamente Ronald Reagan. Nel 1980 pose una semplice domanda agli elettori: "Are you better off than you were four years ago" (state meglio ora o quattro anni fa, quando fu eletto Jimmy Carter)? Durante i quattro anni del presidente democratico l'economia americana aveva registrato una crescita modesta, l'inflazione iniziava correre e soprattutto il suo mandato era stato segnato dalla crisi degli ostaggi all'ambasciata americana a Teheran, liberati il 20 gennaio 1981, pochi minuti dopo l'elezione di Reagan, succedutogli alla Casa Bianca. Quando corse per il secondo mandato, Reagan sorprese tutti con lo slogan "It's morning in America". Era il 1984 ed era l'alba di un nuovo giorno. L'America era di nuovo in piena salute e dava le carte a tutti.

L'economia fu la grande alleata anche di Bill Clinton che otto anni dopo sfidò il vice di Reagan, George H.W. Bush, con il famosissimo slogan "It's the economy, stupid". In realtà l'espressione era un promemoria interno per uno dei pilastri della sua campagna, insieme ad assistenza sanitaria e cambiamento, ma divenne il motto per una corsa alla Casa Bianca incentrata sulla rinascita economica del Paese. Sembra strano ma quel "It's the economy, stupid", "è l'economia, stupido" coniato dal suo stratega James Carville, è ancora considerato uno dei migliori e più efficaci slogan della storia.
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