È la sera del 19 marzo 2002, a Bologna il consulente del ministero del Lavoro Marco Biagi, 51 anni, sta tornando nella sua abitazione.

Sceso dal treno arrivato da Modena (dove insegna alla Facoltà di Economia), chiama la moglie per avvisarla, poi sale sulla sua bicicletta. Non sa che qualcuno lo segue e tiene d'occhio i suoi spostamenti; non ha una scorta.

Di fronte al portone di casa, tre persone - due in motorino e una a piedi -, che poi verranno identificate come appartenenti alle nuove Brigate rosse, lo blocca. Indossano dei caschi per non farsi riconoscere e sparano con un'arma che, si scoprirà in seguito, è la stessa utilizzata per uccidere Massimo D'Antona (vittima di un episodio in circostanze simili nel 1999). Infine si allontanano velocemente.

Biagi viene raggiunto da diversi colpi, almeno sei, e muore poco dopo, quando i medici del 118 stanno cercando di salvargli la vita.

Dopo qualche ora arriva la rivendicazione dell'agguato: il giuslavorista è stato ucciso nell'ambito di una precisa azione diretta a colpire uomini legati allo Stato e che partecipano alle modifiche del mercato del lavoro.

Lui, infatti, era il promotore di una di queste riforme, la legge 30/2003, emanata poi dal governo Berlusconi. Per Biagi il potere organizzativo e direttivo delle aziende spetta solo al datore di lavoro, in quell'ambito non ci devono essere interferenze della magistratura del settore.

Ne consegue che, per il consulente, un'ordinanza per il reintegro del dipendente licenziato è illegittima, tutt'al più la questione si può chiudere con un'indennità.

Ma il modo per creare nuova occupazione esiste, sosteneva Biagi, e sono i contratti flessibili.

Per il delitto Biagi la Corte d'assise di Bologna ha condannato all'ergastolo Nadia Desdemona Lioce, Diana Blefari Melazzi (che si toglierà la vita nel 2009 a Rebibbia), Marco Mezzasalma, Roberto Morandi e Simone Boccaccini.

In appello, confermati gli ergastoli per tutti tranne che per Boccaccini, la cui pena viene modificata in 21 anni di reclusione, con le attenuanti generiche.

Infine la Cassazione rende definitive le condanne, eccezion fatta per la Lioce, che non aveva presentato ricorso dopo la precedente sentenza.

(Unioneonline/s.s.)

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