Dopo 22 mesi di dibattimento nell'aula bunker di Palermo, si chiude il Maxiprocesso contro la mafia: è il 16 dicembre 1987.

Voluto più di tutti da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, autori dell'ordinanza, scritta dai due giudici istruttori nell'esilio forzato dell'Asinara, a causa del concreto rischio di un attentato, il Maxiprocesso deve il suo nome alle sue enormi proporzioni: 19 ergastoli, condanne per 2665 anni di reclusione, multe per 11 miliardi e mezzo di lire, 114 assoluzioni. Tra i condannati all'ergastolo spiccano tutti gli uomini della "cupola": Totò Riina, Bernardo Provenzano (allora latitanti), Michele Greco, Pippo Calò e altri. Tra gli assolti Luciano Liggio: secondo la corte, non avrebbe potuto esercitare dal carcere un ruolo nella struttura di comando di Cosa Nostra.

"Abbiamo vinto", disse Falcone al suo fedelissimo Giovanni Paparcuri, sopravvissuto al tritolo che in via Pipitone Federico il 29 luglio 1983 uccise il giudice Rocco Chinnici di cui era autista. A presiedere la corte d'assise l'allora 57enne Alfonso Giordano, tra i pochissimi ad accettare in mezzo a tanti colleghi che si tirarono indietro. Giudice a latere un 41enne Pietro Grasso, oggi presidente del Senato.

Il maxiprocesso fu reso possibile grazie alle rivelazioni di Tommaso Buscetta, detto il boss dei due mondi, che nel 1984, dopo l'estradizione dagli Stati Uniti, è il primo e più importante degli ex mafiosi che, per le rivelazioni che forniscono, vengono chiamati poi "collaboratori di giustizia".

Come tristemente racconta la Storia, Cosa Nostra organizza un contrattacco: tra il 1992 e il 1993, in due diversi attentati, perderanno la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

(Unioneonline/s.a.)

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