Quando si parla di startup e in generale di ogni innovazione legata alle tecnologie più avanzate la narrazione segue quasi sempre un percorso obbligato: un garage, computer ovunque, giovani in bilico tra genio e sregolatezza, un’idea che nasce dal nulla ma che si rivela in breve tempo rivoluzionaria.

E quindi tanti soldi e tanto successo per i protagonisti della favola che si ritrovano nababbi senza quasi far fatica.

Una vera e propria mitologia, seducente come solo i miti sanno essere, molto ricca di immaginazione come è giusto che sia per ogni mito che si rispetti. A sfatare questo quadro idilliaco e a riportarci, come è giusto che sia, coi piedi per terra – ricordandoci per esempio che nove startup su dieci non sopravvivono ai primi tre anni di attività – ci pensa "Come far fallire una startup ed essere felici" (Bompiani, 2018, 14 euro, pp. 112. Anche EBook). Ne è autore Andrea Dusi, ex startupper e oggi imprenditore realizzato... anche grazie agli errori e ai fallimenti a cui è andato incontro nella sua carriera: "Il fallimento non è la fine di tutto, deve essere, anzi, una lezione da cui ripartire. Se si vogliono ottenere dei risultati, insomma, non bisogna pensare che fallire sia una colpa ma solo un errore da non ripetere. Intendiamoci, fallire fa malissimo, porta con sé dolore e anche disperazione. Ci costringe a interrogarci non solo sulla nostra vita lavorativa ma su noi stessi a 360 gradi. Però è fondamentale come spiego sempre riportando un esempio che risale alla Seconda guerra mondiale".

Racconti, ci ha incuriosito...

"Durante la guerra del Pacifico contro i giapponesi gli americani perdevano sette bombardieri su dieci a ogni missione di bombardamento. Ogni volta controllavano i tre aerei tornati, guardavano dove si trovavano i buchi della contraerea e rafforzavano le zone colpite. Però a ogni missione la situazione non cambiava e sette aerei venivano lo stesso abbattuti. Finché qualcuno non fece notare che non aveva senso rinforzare le parti colpite degli aerei che avevano fatto ritorno. Quelle zone erano già a posto tant’è che gli apparecchi avevano fatto ritorno alla base. Bisognava focalizzare l’attenzione sulle altre parti dei velivoli. Così facendo la situazione è migliorata e i bombardieri hanno preso a far ritorno alla base in numero più alto".

Il fallimento è più utile del successo?

"Il successo fortifica la nostra motivazione però non sono i successi a farci imparare. Il fallimento ci costringe ad analizzare quello che è successo in modo che possiamo ripartire non commettendo più gli stessi errori".

C’è nella nostra cultura un atteggiamento sbagliato, colpevolizzante verso chi fallisce?

"Certo, fino al 2006, per esempio, nel nostro paese chi falliva andava incontro alla perdita di molti diritti, compresi i diritti civili. Il fallimento era una colpa da espiare. Negli Stati Uniti e nel mondo anglosassone l’atteggiamento è diverso. C’è molto rispetto per chi fallisce, impara dai propri errori e poi riparte. Mentre c’è anche più intransigenza che da noi per chi fallisce commettendo reati o danneggiando volontariamente gli altri".

Su dieci startup, solo una resiste dopo tre anni di attività. Ma le startup non sono il paese del Bengodi per chi vuole tentar la fortuna?

"Assolutamente no. Esiste una narrazione molto sbagliata su come si lavora per creare una startup. Intanto la motivazione iniziale non può essere diventare ricchi. Non è una motivazione sufficiente a superare i momenti di difficoltà che sempre ci sono in qualsiasi impresa. Quando lavori per anni diciotto ore al giorno feste comprese non bastano i soldi a farti andare avanti".

Di cosa c’è bisogno allora?

"Ti butti anima e corpo in una startup perché ci credi e senti che vuoi realizzarti con una impresa che è totalmente tua. Sei animato da desiderio di affermazione e di riscatto. Pensi di lavorare a qualcosa che migliori la vita di tutti e ti ci butti completamente, tanto che il lavoro diventa tutt’uno con la tua esistenza. Se ci pensiamo il panorama italiano è ancora dominato dai capannoni industriali con l’abitazione accanto. Chi faceva l’imprenditore anche un tempo costruiva casa accanto alla sua impresa perché quella era la sua vita. Mi fa sorridere chi mi dice che lavora a una startup part-time!".

Conta avere fortuna?

"Tutti gli imprenditori a cui ho rivolto questa domanda mi hanno risposto che la fortuna esiste e conta, però ho capito che fortuna per loro significa cogliere le occasioni. Le occasioni ci sono sempre ma bisogna essere pronti ad afferrarle altrimenti non le vedi neppure. Viceversa la sfortuna esiste. Una persona si può ammalare dopo aver creato un’impresa. Un mio amico ha creato una società privata di aerei e ha fatto l’atto costitutivo dal notaio la mattina dell’11 settembre 2001. Chiaramente la società è nata già spacciata".

Tanto impegno, tanto tempo, tanta motivazione e forse, ma forse forse, si crea una startup di successo. Ma serve anche aver studiato, essere preparati?

"Conta moltissimo anche se esiste il mito dell’imprenditore che abbandona la scuola e poi fa fortuna. Se andiamo a vedere la maggior parte delle persone che ha creato imprese di successo ha alle spalle anni di studio, competenza, preparazione".

È importante anche una cultura di tipo umanistico?

"Io mi sono iscritto a filosofia un paio di anni fa e quindi la mia risposta è assolutamente sì. Non solo è importante una cultura umanistica ma è fondamentale anche in prospettiva futura. Le materie umanistiche daranno nei prossimi anni una marcia in più nella gestione della propria 'barca', cioè della propria impresa".

La copertina del libro
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