Mai come negli ultimi mesi in Europa si è tornati a parlare di frontiere: esterne, che separano il Vecchio continente da quella che per alcuni è una "minaccia", i migranti provenienti dall'Africa, ma anche interne, tra Paesi dell'Ue.

Erano date per abbattute da oltre vent'anni, ma negli ultimi tempi sono state teatro di diversi episodi di tensione, segno che la "salvaguardia dei confini" resta uno degli elementi chiave della riscoperta volontà di sovranità nazionale messa in campo da alcuni Stati.

Un caso diplomatico è scoppiato dopo che lo scorso 30 marzo a Bardonecchia (Torino), snodo di passaggio per chi cerca di superare le Alpi, la polizia della dogana francese ha fatto irruzione in Comune, dove i migranti respinti da Parigi vengono assistiti dai volontari di una locale ong. Ma tensioni sono state registrate anche vicino al Brennero, dove nei mesi scorsi l'Austria ha voluto schierare l’esercito per effettuare controlli serrati su chi viaggiava a meno di 20 chilometri dal confine con l’Italia.

Il rinnovato interesse per le "terre di frontiera" è al centro dello studio di Roberto Roveda e Michele Pellegrini, archivista e paleografo, con un dottorato di ricerca in Storia del cristianesimo e delle chiese cristiane all'Università degli Studi di Padova. Sono coautori de "Il confine settentrionale" (Oltre Edizioni), in uscita l'8 maggio.

Roveda, milanese, classe 1970, Storico e giornalista ed esperto di questioni svizzere, spiega a L'Unione Sarda perché - dal Medioevo e ancora oggi - la questione frontiere sia sempre di grande attualità.

Come è nata l'idea di scrivere un saggio per parlare di confini italiani?

"Il libro si inserisce in una collana – 'Passato prossimo' – che prova ad analizzare in chiave storica i diversi confini italiani, che hanno caratteristiche molto diverse tra di loro: quello meridionale è segnato dal Mediterraneo, quello orientale divide l'Italia dal mondo slavo, mentre quello occidentale ci separa dai francesi, che spesso chiamiamo 'cugini d’Oltralpe'. Con loro ci sono vicinanze culturali e linguistiche, ma anche molta rivalità".

In che senso?

"Il confine settentrionale è due volte duplice, perché mette in comunicazione l'Italia con due realtà, l'Austria e la Svizzera, e poi perché è insieme un confine linguistico – perché ci si confronta con il mondo tedesco e con quello francese – e religioso e segna l'incontro con la Riforma e il protestantesimo. In questo però è anche un confine anomalo, perché da una parte esiste un territorio italiano in cui si parla la lingua tedesca, l'Alto Adige appunto, dall'altra, anche dopo aver superato la dogana con la Svizzera, si continua a parlare italiano".

I luoghi di frontiera sono spesso legati nella memoria collettiva alla guerra.

"Lungo il confine settentrionale si è storicamente combattuto molto durante le due guerre mondiali, con l'Impero austro-ungarico e poi, dopo il 1943, in seguito alla firma dell'armistizio da parte dell’Italia.

Il confine con la Svizzera invece non ha più visto conflitti dal Cinquecento, cioè da quando il Canton Ticino è entrato a far parte della Confederazione elvetica. Anzi, addirittura nell'Ottocento, prima dell'unificazione, la Svizzera è stata la terra di rifugio dei patrioti italiani che scappavano dagli austriaci. Per esempio, il critico letterario Francesco De Sanctis si ritirò per quattro anni a Zurigo, dove insegnò al Politecnico. Anche durante la Seconda guerra mondiale la Svizzera ha accolto molti fuoriusciti dall’Italia fascista, tra cui tante famiglie ebree".

Confini dunque permeabili, dove storicamente sono transitate persone, mezzi e merci. Ma che idea si è fatto dei rapporti tra i popoli confinanti?

"Il passaggio nord-sud e viceversa continua a essere molto battuto dal punto di vista commerciale. Poi con il progetto Alptransit – una linea ferroviaria dell’alta velocità, che consentirà di collegare Milano e Zurigo in un’ora e mezza –, di cui un primo tratto è stato inaugurato nel 2016, si raggiungerà un traffico merci su rotaia prima impensabile. Quello che, secondo me, continua a mancare è un vero scambio culturale e di idee tra i popoli.

Prendiamo ad esempio il caso dei frontalieri: ogni giorno si recano in Svizzera, lavorano e poi tornano in Italia, ma la diffidenza verso la popolazione locale rimane. Gli svizzeri guardano a Milano – capoluogo della Lombardia, da cui provengono la maggioranza dei lavoratori – come una grande metropoli tentacolare piena di rischi, ma anche negli italiani resistono gli stereotipi sugli elvetici".

Questo avviene solo con la Svizzera?

"No, avviene anche nella terra di confine dell'Alto Adige, dove gli abitanti di lingua tedesca si sentono austriaci ma poi sembrano non voler rinunciare ai benefici dell’appartenenza allo Stato italiano. Gli austriaci stessi, d'altro canto, sembrano guardare all'Italia solo come al luogo da cui provengono migliaia di turisti. Mi pare che ognuno resti un po' chiuso nelle proprie posizioni. Ancora di più oggi, con il risorgere del nazionalismo austriaco".

Il confine elvetico rappresenta quasi un unicum, perché la Svizzera non fa parte dell'Unione europea.

"È il solo caso per l'Italia in cui oggi si continua a parlare propriamente di confine, proprio perché è ancora attiva una dogana, anche se i rapporti tra il Paese e l'Ue sono regolati da Accordi Bilaterali. La Svizzera continua a essere un'isola chiusa in se stessa, un'isola continentale. Per questo ci sono paralleli e confronti con l'Inghilterra e le isole del Mediterraneo, Sardegna e Sicilia in primis. Forse per una boutade alcuni anni fa un'associazione culturale della Sardegna aveva proposto che l'Isola diventasse l'ennesimo cantone svizzero, così che potesse dare uno sbocco al mare alla confederazione elvetica e insieme entrare in un mondo diverso da quello italiano e comunitario".

Ha accennato al tema dei frontalieri, che resta uno degli argomenti "caldi" nel rapporto tra Svizzera e Italia.

"I frontalieri rappresentano un'iniezione di manodopera fondamentale per l’economia svizzera, che altrimenti avrebbe difficoltà a reperire professionalità adeguate. Di solito però questi lavoratori – che continuano a vivere in Italia – non acquisiscono la mentalità elvetica, ma conservano una forma di distacco. Allo stesso modo gli svizzeri sviluppano nei confronti dei frontalieri la stessa diffidenza che in Italia abbiamo nei confronti dei migranti. Con la differenza che in Canton Ticino ogni giorno arrivano 60mila persone su una popolazione totale di 300mila, mentre in Italia oggi gli stranieri sono il 10% della popolazione totale".

A proposito di traffici tra Paesi confinanti, non si possono non citare i capitali italiani che da decenni superano le Alpi e finiscono in Svizzera…

"Per tanti anni la Svizzera è stata luogo di rifugio dei capitali italiani. Oggi però le cose sono totalmente cambiate: Berna ha dovuto eliminare il segreto bancario e gli istituti di credito elvetico sono obbligati a fornire dati agli altri Stati europei, aderendo alle regole dell'Ue. Sicuramente non è più un paradiso fiscale, come era negli anni Settanta e Ottanta, anche se è ancora vissuta come 'isola felice', dove i miliardari possono ottenere trattamenti di favore in forma assolutamente legale. Ci sono cittadine o piccoli comuni infatti che 'invitano' i possessori di capitali a trasferire il loro denaro in cambio di tassazioni agevolate. Oggi le banche elvetiche sono forzieri di una quantità enorme di ricchezze mondiali, alcune delle quali hanno provenienza illecita. Negli scorsi anni ci sono state diverse inchieste, che hanno appurato la presenza di capitali mafiosi, in particolare della 'ndrangheta, negli istituti elvetici".

Come è nato invece lo "status speciale" di Campione d’Italia?

"Campione d'Italia – che tutti conoscono per il casinò che ospita – rappresenta un'enclave italiana in territorio svizzero. È l’unico territorio che ha una doppia giurisdizione e in cui è possibile usare indifferentemente il franco o l'euro. Il suo status nasce da una situazione di fatto creata dalla storia: il territorio del paese apparteneva alla Diocesi di Milano, e in particolare al monastero della Basilica di Sant'Ambrogio, fin dal Medioevo. E in oltre mille anni nessuno ha mai voluto mettere mano alla sua autonomia, neppure Napoleone Bonaparte".

Tornando invece al confine con l'Austria, quando si inizia a parlare di una questione sudtirolese?

"Si può dire che sia nata con l'ascesa al potere del fascismo, che tenta di italianizzare una regione entrata a far parte del nostro Paese nel 1919, in seguito alla vittoria della Prima guerra mondiale. Un'operazione che genera il malcontento di gran parte della popolazione locale. Con l'alleanza Mussolini-Hitler e l’annessione dell'Austria alla Germania, nel 1939 viene data la possibilità ai sudtirolesi di scegliere se far parte dell’esercito italiano o di quello del Terzo Reich e in molti decidono di far parte di quest’ultimo. Quando nel 1943 crolla il fascismo e i tedeschi occupano l'Italia, molti sudtirolesi plaudono all’arrivo delle truppe tedesche, considerando questa la loro occasione per rientrare in quel mondo. Con la fine della Seconda guerra mondiale però questo sogno si infrange: non era possibile infatti che Germania o Austria beneficiassero di alcuna compensazione territoriale, essendo tra le forze sconfitte".

Una tensione che nel secondo dopoguerra esplode...

"Nonostante la firma dell’accordo siglato nel 1946 dal presidente del Consiglio italiano Alcide De Gasperi e Karl Gruber, ministro degli Esteri austriaco, per la favorire la concordia nella zona, alla fine degli anni cinquanta iniziano i primi episodi di violenza, che sfoceranno poi nel decennio successivo in veri e propri attacchi terroristici compiuti dagli irredentisti sudtirolesi. La questione a quel punto viene affrontata dalle istituzioni italiane, con politiche di riconoscimento delle minoranze e di finanziamento della Provincia autonoma di Bolzano. A quel punto in molti all'aquila bicipite degli Asburgo preferiscono la lira romana. In tutto questo processo un ruolo moderatore è stato svolto dalla Südtiroler Volkspartei, il partito del popolo sudtirolese, di lingua tedesca, che è stato alleato con la Democrazia cristiana per tanti anni".

E come sono cambiati i rapporti tra sudtirolesi e austriaci negli anni successivi all'abolizione delle frontiere voluta dall'Unione europea?

"Per quanto una parte della popolazione resti legata all'Austria, permangono le differenze e la salvaguardia ciascuno dei propri interessi. Rappresentativo è il caso dell'uomo del Similaun, una mummia di epoca preistorica trovata il 19 novembre 1991 sulle montagne del confine tra i due Stati. Oggi è una delle grandi attrazioni del museo di Bolzano per il suo ottimo stato di conservazione, ma secondo alcuni sarebbe scoperta in territorio austriaco. All'epoca pare che i responsabili del ritrovamento abbiano chiamato i carabinieri per far picchettare la zona e gli archeologi avrebbero spostato il reperto.

Questi episodi sicuramente hanno creato ulteriori solchi con l'Austria, difficili di appianare. Dall'altra parte Vienna sembra ricordarsi del popolo sudtirolese solo in poche e nostalgiche occasioni, per esempio quando si celebra il ricordo di Andreas Hofer, l’eroe dell’indipendenza tirolese contro Napoleone".

Come si è evoluta la situazione negli ultimi anni?

"Come in altri Paesi parte del Vecchio Continente, anche in Austria stanno risorgendo forti elementi nazionalistici, che portano con sé l'idea di una riunione dei popoli di lingua tedesca, un 'mito' otto-novecentesco che si credeva ormai superato con il progetto europeo.

Recentemente Vienna ha lanciato alcune proposte – tra cui quella di un doppio passaporto per i sudtirolesi tedescofoni o quella dell'apertura dei consolati austriaci per i sudtirolesi, che al momento però non hanno avuto seguito sul piano legislativo, anche per l'opposizione del governo italiano".

Alessandra Favazzo

(Unioneonline)

Il saggio di Roberto Roveda e Michele Pellegrini

© Riproduzione riservata