Daria Bignardi arriverà in Sardegna questa domenica, ospite di Éntula, festival letterario diffuso, che farà tappa nel piazzale della basilica di Saccargia (Codrongianos) alle 17.30 con Stefano Resmini e Giovanni Fancello. E lo farà per raccontare ai suoi numerosi lettori il bellissimo e vendutissimo romanzo "Storia della mia ansia" (Mondadori).

Lea è una donna che potrebbe dirsi realizzata. É una drammaturga e una romanziera, è sposata, ama il marito Shlomo e i suoi tre figli, ma c'è qualcosa che la perseguita: uno smarrimento, il rosicchiamento di un tarlo che scava gallerie labirintiche, un ritmo che si ripercuote su di lei a precise intermittenze come piccole mazzate che la devastano. Sono i sintomi dell'ansia, un male che le scava l'anima, e la pone di fronte a due impreviste situazioni drammatiche: una malattia e il sentirsi trascurata dal marito.

Sembra che il suo corpo, improvvisamente, abbia detto basta per ammalarsi di una malattia seria, di quelle che quando i medici le diagnosticano, la gente si sente perduta. Ma Lea ha risorse insperate anche se la sua battaglia si traduce in una sorta di sfida tra lei e la vita che la obbliga a difendersi. Reagisce e combatte, soprattutto con il marito che sembra indifferente alle sue necessità. Ma Lea sa che in lui agiscono varie interferenze sentimentali che ne fanno un uomo apparentemente poco socievole, ma in realtà è solo questione di un carattere taciturno che sembra scorbutico.

All'ansia Lea dà un credito di felicità. Si può concedere la leggerezza che non ha mai avuto, mentre la malattia che la obbliga a curarsi le fa incontrare un ragazzo giovane molto bello (altrimenti lei non l'avrebbe mai notato) tanto da considerare la condizione in cui è venuta a trovarsi "come un'astronave fuori dal tempo, e come in guerra ci sono le leggi speciali anche in questa relazione c'è qualcosa di speciale".

"Storia della mia ansia" ma anche storia di un matrimonio infelice. È a causa del carattere del marito Shlomo, sempre un po' scorbutico e taciturno al punto d'essere quasi indisponente, che Lea conduce una vita sempre in tensione?

"Quel che sappiamo di Shlomo lo apprendiamo dallo sguardo e la voce di Lea: è lei che lo descrive così, noi non sappiamo come sia davvero, ogni lettore si fa la sua idea di lui. Sicuramente Shlomo è un uomo di poche parole, e non molto accudente o generoso di sé; Lea lo racconta come un anaffettivo, ma forse è solo un diversamente affettuoso".

Pur combattendo con un carattere che un po' la deprime, Lea ama immensamente il marito, e la sofferenza d'amore sembra renderlo ancora più attraente per lei. Ma non c'è un po' di masochista in questo attaccamento?

"Direi di sì. Questo è uno dei temi. Perché Lea è tanto innamorata di un uomo che la fa soffrire? Forse ha bisogno di soffrire per amare? Non c'è alcun narcisismo in Lea, è sicuro, mentre forse in Shlomo un poco sì".

Shlomo è un uomo ingeneroso, un prepotente o solo uno che non dà al matrimonio lo stesso valore che le attribuisce Lea?

"Io non lo so: conosco i miei personaggi fino a un certo punto. Penso che Shlomo stia bene anche da solo, ma che abbia provato seriamente ad amare Lea. Tra loro due c'è un problema di comunicazione, hanno tempi diversi in tutto. Ma si sono comunque molto amati. Il momento in cui si svolge il racconto è però di grande crisi tra di loro: Lea sente che Shlomo non la ama più, ne soffre moltissimo, cerca di capire, e in più si ammala".

Proprio per il confronto fra i due coniugi, il libro assume le cadenze di un viaggio all'interno del matrimonio: un legame sociale e sentimentale ancora necessario, o una catena che si vorrebbe spezzare definitivamente?

"Lea tiene moltissimo alla sua famiglia, ci tiene più che ad ogni altra cosa. Non tutti hanno il valore della famiglia, forse Shlomo no, anche perché è un uomo sradicato dal suo paese e abituato a stare da solo, figlio di genitori separati e non molto presenti nella sua vita. In generale, alcune persone tengono moltissimo alla famiglia, altre meno. Uomini e donne. Ma è vero che ancora oggi per le donne la famiglia è la cosa più importante".

L'ansia di Lea è solo frutto della condizione sentimentale che vive o un connaturato modo di essere?

"L'ansia di Lea è sicuramente ereditata dalla madre Gemma , è connaturata in lei e aggravata dall'insicurezza amorosa e dal lavoro creativo performante che fa. Scrivere la fa star bene e incanala la sua ansia mentre leggere in pubblico i suoi monologhi la agita e la stressa".

Lea, in qualche modo, è una sconfitta? Le sconfitte aiutano, migliorano?

"Lea non mi sembra sconfitta nel lavoro, anzi. E neanche nella vita. Ha dei figli amatissimi, è curiosa, è capace di affrontare prove importanti come una seria malattia con molta forza ma anche lucidità e leggerezza. Lea non si arrende mai. La sua unica sconfitta, forse, è l'amore. Certamente non poco. Ma per quanto riguarda la sua domanda, sì, credo che le sconfitte servano più di ogni altra cosa. A cambiare, a migliorare, a ripartire".

La malattia arriva a complicare l'esistenza di Lea: che cosa cambia nella vita di una persona la consapevolezza di allevare in sé un male insidioso?

"La malattia costringe a un reset, un riassetto. Non credo serva a capire cose nuove, ma forse spinge a fare finalmente quelle che si è sempre saputo di voler e dover fare".

L'amicizia con Luca, il giovane malato che Lea conosce durante le sedute di chemioterapia, alleggerisce la tensione del romanzo e crea una sorta di pausa nel dramma. Luca è la giovinezza, la memoria, la speranza, il futuro?

"Luca è tutte queste cose, in più ha la funzione di illuminare la parte più divertente e allegra di Lea. Lei si sente la persona leggera e amabile che Luca la fa sentire, mentre il marito le restituisce un'immagine di sé noiosa e pesante. Con Luca si diverte. Shlomo lo ama".

Francesco Mannoni

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