Genio e sregolatezza, creatività e follia: Dino Campana (1885-1932) e la sua arte poetica sono sempre state semplicisticamente racchiuse da questi estremi. Eppure la lettura dei suoi Canti orfici e ancor più la conoscenza della sua vicenda umana fatta di grandi viaggi, incontri, di pieno coinvolgimento nel clima e nelle tensioni del suo tempo ci fanno capire che c’è ancora molto da dire e da scoprire su questo grande poeta.

Ad aiutarci in questo percorso di scoperta della cultura e del mito di Dino Campana è Renato Martinoni, docente di Letteratura italiana all’Università svizzera di San Gallo e autore del saggio Orfeo barbaro (Marsilio, 2017).

Perché Campana può essere annoverato tra i grandi poeti del Novecento?

"Campana è autore di un solo libretto di poesie, i «Canti Orfici», usciti presso un modesto stampatore nel 1914. Alcuni studiosi lo hanno considerato, e c’è chi continua a vederlo, come il maggiore poeta del Novecento. Forse non è così. Resta che Campana è uno dei «grandi» per più di un motivo. Per l’originalità e la qualità della sua poesia, tanto diversa da quella che l’Italia offriva in quegli anni. Poi perché la poesia campaniana mantiene intatta, anche a distanza di un secolo, la sua freschezza. Da ultimo perché, come pochi, Campana ha saputo oltrepassare le frontiere nazionali per aprirsi alla cultura europea. La migliore del suo tempo".

Di cosa si nutriva la sua opera?

"Si potrebbe rispondere sbrigativamente dicendo: si nutriva della follia. La vita del poeta è costellata di irregolarità e di trasgressioni, di vagabondaggi, di imprigionamenti e di ricoveri coatti. Campana trascorre gli ultimi quattordici anni della sua vita tribolata in manicomio. Facciamo intanto chiarezza. Non è la follia, ma il dolore che sta sotto la follia, a produrre arte. Detto questo è sbagliato vedere l’opera poetica campaniana come il frutto della pazzia. Come se l’originalità nascesse dalla trasgressione. Campana è un vagabondo che dorme in riva al mare o sotto i ponti. Ma è anche un uomo che viaggia e osserva mondi differenti (l’Europa, il Sudamerica). E soprattutto è un giovane che entra nelle biblioteche (lo fa a Ginevra) per leggere libri che pochi, forse nessuno, nell’Italia dei suoi tempi, leggeva. Ecco il vero umore che nutre la sua poesia e la rende così straordinaria".

Come si poneva Campana di fronte alle fanatiche illusioni e ai conflitti del suo tempo?

"È molto facile cadere nei fanatismi che spesso sono figli, oltre che della stupidità, di argomentazioni altisonanti e vuote. Basta guardarci intorno per vedere come questo succeda anche oggi, perfino nei luoghi più civili e tradizionalmente democratici. Ai primi del Novecento l’Italia, come altri paesi europei, è un paese in preda al nazionalismo, ai discorsi retorici, ai fanatismi di scrittori celebrati che esaltano l’azione, la violenza, la guerra. Campana non sopporta né questa oratoria né l’odio per le altre nazioni: perché sa che la vera cultura, come la vera poesia, non ha confini e neanche sciocche legittimazioni nazionali. La vera poesia, come la vera arte, non può essere imbrigliata da frontiere politiche".

Cosa ci ha lasciato in eredità questo poeta?

"Dino Campana ci ha lasciato un amore sconfinato e sincero per la poesia. E ci ha regalato versi che non solo resistono al tempo ma continuano a parlarci e a rivelarci cose nuove. Ecco il suo messaggio: la poesia non nasce per caso, occorre amarla, coltivarla, nutrirla, cercarla. Non è un caso che finalmente anche gli studiosi che operano al di fuori dell’Italia si sono accorti di lui e lo hanno messo fra i più importanti autori dell’Espressionismo europeo. Altro che poeta disordinato e «matto»".

La copertina del libro
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