Il processo di Norimberga è passato alla storia per essere stato il momento in cui le vittime di una tragedia - quella dell'olocausto - ottenevano una parte di giustizia.

Ma non è stato importante solo per questo.

Per la prima volta, in quel novembre 1945, furono utilizzati i traduttori per permettere a ciascun imputato, testimone, vittima o inquirente di esprimersi e ascoltare il dibattimento ciascuno nella propria lingua.

Quello che oggi - a più di settant'anni di distanza - è uno dei punti cardine del cosiddetto "giusto processo", ma che all'epoca era un principio affatto scontato.

È a questo momento storico che è dedicata una mostra a Milano, alla Civica scuola interpreti e traduttori Altiero Spinelli dal titolo "Un processo - quattro lingue".

"Gli spunti sono due - racconta il direttore della "Spinelli", Pietro Schenone -. Uno è che l'Europa è nata da un atto di giustizia. Il secondo è la nascita della professione degli interpreti che, per poter lavorare al processo di Norimberga, si impegnarono a mantenere un distacco emotivo".

Una sfida per i linguisti dell'epoca che si trovarono per la prima volta a tradurre in simultanea e a confrontarsi con termini del tutto nuovi. Solo la parola "genocidio", ad esempio, era stata coniata poco tempo prima.

"Norimberga segna la nascita di un comunità sia linguistica che di identità - spiega la docente Annalise Boyer -. Segna il fatto che viene riconosciuto il diritto a una identità linguistica, tuttora fondamentale in Europa. E segna l'inizio di un nuovo concetto di diritto penale internazionale".
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