A cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento Annibale Canessa ha fatto della lotta al terrorismo la sua unica ragione di vita. Da ufficiale dei Carabinieri non si è mai tirato indietro e ha sempre operato in prima linea, senza paura di sporcarsi le mani e non disdegnando i metodi spicci. Un uomo d’azione, insomma, con una gran fiuto, tanto coraggio e un enorme senso del dovere.

Una persona indispensabile fino a che c’è stata da combattere una guerra, ingombrante una volta sconfitto il nemico.

Così, dopo l’ennesimo arresto importante, quello di Giuseppe Petri, membro del gruppo di fuoco più sanguinario delle BR, i suoi superiori lo hanno costretto a farsi da parte e gli hanno fatto capire che il suo tempo era finito.

Canessa allora ha mollato tutto e per trent’anni si è ritirato a vita privata. Poi, un giorno, Giuseppe Petri muore in un agguato, a Milano. Accanto a lui cade Napoleone Canessa, fratello di Annibale. Per l’ex ufficiale dei Carabinieri viene allora il momento di tornare in azione e di fare i conti con il passato. Naturalmente a modo suo.

Prende così le mosse La seconda vita di Annibale Canessa (Rizzoli, 2017, Euro 19, pagine 420. Anche in Ebook, giallo poliziesco ad alto contenuto di adrenalina scritto dal giornalista Roberto Perrone.

Un romanzo dominato dalla figura di Annibale Canessa, un protagonista insolito nel panorama del poliziesco nostrano.

Può confermarlo?

"Mi piaceva l’idea di raccontare una vicenda italiana ma con un protagonista che si distaccasse dal cliché letterario del poliziotto italiano, che prevede solitamente commissari che girano senza pistola e poco avvezzi all’azione.

Volevo un personaggio un po’ all’americana, abituato a usare le armi che poi sono i ferri del mestiere dei poliziotti così come lo è per me la tastiera del computer. Per questo nel mio romanzo ci sono momenti di riflessione, dove i personaggi si interrogano, discutono ma non mancano l’azione e le sparatorie".

Come mai hai scelto di raccontare una storia legata all’epoca tragica del terrorismo?

"Perché è un periodo di cui si parla ancora troppo poco e che i giovani, soprattutto i ragazzi, conoscono pochissimo. Quasi tutti i nati negli ultimi vent’anni ignorano che è esistita un’epoca in cui giovani come loro mettevano a ferro e fuoco le città, sparavano e uccidevano.

Si ha poca memoria di periodo tragico in cui sono state compiute nefandezze e sono state pure scritte perché la violenza verbale fu impressionante come quella fisica.

Probabilmente anche per questo molti, diventati poi scrittori, intellettuali e giornalisti, hanno cercato di stendere un velo pietoso su quel momento storico".

Dal tuo punto di vista ci può essere rispetto per i terroristi?

"Nel mio libro c’è rispetto per Petri perché ha compiuto un percorso personale e mostra di volersi in qualche modo redimere. Il giudizio su chi ha ucciso però rimane netto, da parte mia: non ci può essere né rispetto, né, tantomeno, alcuna forma di ammirazione".

C'è abbastanza rispetto nei confronti delle vittime e dei loro familiari?

"Il problema nel nostro Paese è che ci sono vittime di serie A e vittime di serie B e se ne fa un uso strumentale. I morti servono finché sono utili a sostenere una determinata ideologia, altrimenti danno fastidio. Il rispetto invece dovrebbe essere universale nei confronti di chi ha sofferto a causa di un’utopia sanguinaria e senza senso".

Annibale Canessa avrà una "terza vita"?

"L’idea c’è ed è veramente difficile che Canessa stia con le mani in mano ora che è rientrato in servizio".

Roberto Roveda

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