La giustizia non riuscì a individuare il colpevole di quel massacro - moglie, marito, figlia e cagnolino, uccisi nel 1975 in un appartamento di via Caravaggio, nel quartiere napoletano di Fuorigrotta - che suscitò raccapriccio e terrore e in città ancora si ricorda come uno dei casi giudiziari più controversi e appassionanti, di quelli che fanno impennare le vendite dei quotidiani e dividono l'opinione pubblica. E ora che le moderne tecniche di investigazioni scientifiche consentirebbero di riaprire il caso, la legge non può fare il suo corso, ma deve anzi bloccarsi come di fronte a un muro invalicabile. E questo in ossequio a un principio di antica civiltà giuridica che va sotto il nome di "ne bis in idem" che impedisce di processare una persona, assolta con sentenza definitiva, due volte per lo stesso fatto. Sì perché le tracce di dna scoperte dalla polizia scientifica sui reperti sequestrati sul luogo del triplice omicidio, e conservati per decenni nei depositi del Tribunale di Napoli, ricondurrebbero sulla scena del delitto proprio lui, Domenico Zarrelli, nipote di una delle vittime, l'imputato che fu assolto con formula piena a conclusione dei tre gradi di giudizio. Dalla indiscrezioni, che circolavano da diversi mesi ma solo ora hanno trovato conferma, si è appreso che tracce di Dna attribuite a Zarrelli sono state rinvenute su alcuni reperti, tra cui uno straccio da cucina insanguinato e mozziconi di sigarette. Per ora sulla vicenda resta aperto un fascicolo, di cui è titolare il pm Luigi Santulli con il coordinamento del procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli. Sembra tuttavia scontato l'approdo dell'inchiesta: una richiesta di archiviazione, da inoltrare al giudice per le indagini preliminari, arricchita ovviamente di considerazioni giuridiche sulla impossibilità di procedere nei confronti di un indiziato riconosciuto non colpevole dalla legge, al termine di un lungo e tortuoso iter processuale. E il riserbo strettissimo che gli inquirenti hanno mantenuto sulla vicenda si spiega - come si evidenzia in ambienti giudiziari - con la necessità di dover garantire i diritti di un indiziato non ha più la possibilità di difendersi in un processo dalle eventuali accuse che gli verrebbero contestate. Tutto nasce da un esposto anonimo spedito in procura nell'ottobre 2011. Poco dopo l'allora procuratore aggiunto Giovanni Melillo delegò alla polizia scientifica di Napoli e del servizio centrale di Roma le indagini sui reperti. I poliziotti recuperarono nei depositi del Tribunale gli scatoloni con gli oggetti rinvenuti nella casa di via Caravaggio, tutti in buono stato di conservazione nonostante siano trascorsi circa quarant'anni dal sequestro. Il delitto avvenne nella notte tra il 30 e il 31 ottobre 1975 in un appartamento di via Caravaggio, nella zona alta del quartiere Fuorigrotta. Furono uccisi, probabilmente con un corpo contundente mai rinvenuto, Domenico Santangelo, 54 anni, capitano di marina mercantile in pensione, la sua seconda moglie, l'ostetrica Gemma Cenname, 50 anni, e Angela Santangelo, 19 anni, figlia dell'ex capitano. Il massacro fu scoperto l'8 novembre dalla polizia, alla quale si erano rivolti i familiari delle vittime preoccupati per l'assenza di notizie, dopo che i vigili del fuoco erano riusciti a entrare nell'abitazione. I cadaveri di marito e moglie erano nella vasca da bagno, dove fu rinvenuto anche Dick, lo yorkshire eliminato anch'esso dall'assassino. Per il triplice omicidio fu accusato Domenico Zarrelli, nipote della Cenname, appartenente a una nota famiglia di professionisti (da detenuto prenderà la laurea in legge e, una volta scagionato dall'accusa, eserciterà l'attività di penalista). A chiamarlo in causa, tra l'altro, un testimone che aveva creduto di riconoscerlo alla guida dell'auto di Santangelo mentre si allontanava da via Caravaggio la notte dell'eccidio, alcune ferite alle mani (che lui giustificherà con una caduta risalente ad alcuni giorni prima mentre spingeva la sua auto in panne), e una querela che la signora Cenname aveva approntato nei confronti del nipote anni prima per maltrattamenti e che era rimasta invece chiusa nel cassetto del suo studio. Il movente, secondo la ricostruzione dell'accusa, sarebbe stato il rifiuto opposto da qualcuno dei familiari alle continue richieste di denaro che avrebbe innescato la reazione violenta dell'imputato, il quale dopo aver ucciso (non è chiaro se prima Santangelo o la moglie) avrebbe deciso di eliminare i testimoni del delitto. Il processo di primo grado, fondato su indizi, si concluse con la condanna all'ergastolo. Zarrelli fu assolto in appello a Napoli e, dopo l'annullamento della sentenza da parte della Cassazione, nuovamente assolto con formula piena dalla Corte di Assise di Appello di Potenza. Sentenza confermata nel 1985 dalla Cassazione. In seguito Zarrelli ottenne dalla Stato il risarcimento per danni morali e materiali.

Enzo La Penna (Ansa)
© Riproduzione riservata