È la notte del 25 aprile 1986, e nell'unità numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl, in Ucraina settentrionale (allora parte dell'URSS), è in corso un test di sicurezza per valutare la resistenza dell'impianto in caso di blackout energetico.

Al lavoro sono presenti 176 dipendenti, più 286 operai addetti alla costruzione di una nuova unità.

Per creare le condizioni ideali alla sperimentazione, gli operatori preposti disattivano alcuni dispositivi d'emergenza. Una decisione azzarda, e che si rivelerà fatale. Nel corso del test una serie di errori tecnici e di leggerezze procedurali portano infatti ad un incontrollato aumento di potenza e calore nel nucleo del reattore numero 4, mentre il sistema di raffreddamento ad acqua si interrompe smettendo di trasportare fuori dal nocciolo l'immenso calore prodotto dalla fissione nucleare.

Ne scaturisce, all'una e 22 minuti del mattino del 26 aprile, una violentissima esplosione, che provoca lo scoperchiamento del reattore e la fuoriuscita delle ceneri radioattive in tutta l'area circostante.

Quello che seguirà sarà il più grave disastro nucleare mai avvenuto: tonnellate di materiale nucleare vengono scagliate nell'atmosfera, un micidiale miscuglio di diossido di uranio, iodio-131, plutonio-239, nettunio-139, cesio-137 e stronzio-90, insieme ad altri isotopi radioattivi provenienti dal nocciolo. Una nuvola incandescente che si propaga nel cielo investendo per prima la foresta di pini vicina alla centrale e poi il centro di Pripyat, la cittadina creata appositamente per i lavoratori dell’impianto. La nube radioattiva nelle ore successive si dirige quindi verso l'Europa del Nord, toccando Finlandia e Scandinavia, e poi a ovest e sud verso Francia, Germania, Svizzera, Austria, Balcani, Italia e persino la costa occidentale degli Usa.

Nonostante la gravità della situazione ci vorranno ben 36 ore prima che le autorità si decidano a evacuare gli abitanti di Pripyat e ad emettere un primo comunicato in cui si utilizzi la parola "incidente". Una mancanza gravissima, e a cui si pone rimedio solo a seguito delle forti pressioni della Svezia, il primo Paese a segnalare l'allarme di un innalzamento dei livelli di radioattività.

La città di Pripyat, con migliaia di persone sfollate e che con faranno mai più ritorno nei luoghi del disastro, reso inabitabile dai livelli di radioattività, diventerà il simbolo dell'incidente nucleare. Attorno alla centrale sarà creata una zona di sicurezza di 30 km quadrati controllata militarmente, ma i rimanenti tre reattori dell'impianto riprenderanno a funzionare nell'arco dei tre anni successivi, mentre per i circa 10 mila dipendenti verrà costruita la nuova città di Slavutich distante 70 km. Solo nel 2000 il presidente ucraino Kuchma spegnerà definitivamente l'ultima unità ancora in funzione dell'impianto, mettendo la parola fine a una tragedia conclusasi con condanne esemplari per 67 dipendenti della centrale: 10 anni di lavori forzati per il direttore della centrale Viktor Bryukhanov e per l'ingegnere capo Nikolai Fomin, più 5 al vice capo ingegnere Anatoly Dyatlov - da molti considerato il maggior responsabile del disastro - e condanne minori ad altri operatori presenti la notte dell'esplosione.

In questi ultimi 32 anni una catena di solidarietà senza fine ha supportato le popolazioni più direttamente colpite dalla tragedia, gli abitanti di Pripyat, Chernobyl, dei paesi confinanti e della confinante Bieolorussia, dove ancora ci si continua ad ammalare e morire per gli effetti devastanti portati dalla nube.

Un ruolo svolto con generosità seconda a nessuno anche dalla Sardegna, con oltre 30.000 bambini bielorussi ospitati nell'Isola nell'ambito dei programmi di accoglienza temporanea che continuano ancora oggi, con gli arrivi in programma nei mesi di giugno, luglio, agosto e, successivamente, dicembre.

A ricordarlo, oggi, è il console onorario della Repubblica di Belarus in Sardegna, Giuseppe Carboni, con una lettera di ringraziamento: "A nome delle istituzioni e del popolo bielorusso – ricorda il console Carboni - voglio ringraziare le famiglie e le associazioni di volontariato sarde per l'impegno concreto a favore dell'infanzia bielorussa e l'apprezzamento per il sostegno che la Regione Autonoma della Sardegna, le variate amministrazioni comunali, le università sarde garantiscono, affinchè, questa solidarietà continui e si sviluppi in forme sempre più ampie ed efficaci allargandosi in tutti i settori di reciproco interesse. Il popolo bielorusso non dimenticherà mai coloro che nel momento della disgrazia hanno teso la propria mano per sostenere e aiutare! GRAZIE SARDEGNA!".

In tutto il mondo sono oggi in programma una serie di manifestazioni per ricordare le vittime di questa immane tragedia e il sacrificio dei cosiddetti "liquidatori", ossia il personale dei vigili del fuoco e della protezione civile che intervenne nelle zone colpite a prezzo della propria salute e vita.

(Unioneonline/v.l.)
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