Il nonno Salvatore, che ha lavorato nella Compagnia portuale per una vita, l'aveva avvisata. "Lascia perdere, non è un lavoro per donne". Lei però ha fatto di testa sua, come sempre. "Avevo 25 anni e un figlio, studiavo scienze dell'educazione all'Università, ma volevo lavorare e conquistarmi il futuro. Le sfide non mi hanno mai spaventata, però non pensavo sarebbe stata così dura".

Oggi Roberta Massoni di anni ne ha 38. Ha avuto un altro figlio e continua a fare la portuale. Mansione trattorista: guida i mezzi pesanti su cui vengono scaricati i container dalle navi. Avanti e indietro per ore lungo le banchine, d'estate e d'inverno, quando picchia il sole o soffia la gelida tramontana. Un lavoro massacrante. Donna, madre, single. E sindacalista. Sì, perché Roberta, segretaria del Sul, è il volto della protesta che da mesi sta incendiando il porto, quella dei 48 lavoratori della Compagnia di Cagliari - ormai fallita - rimasti senza stipendio e soprattutto senza certezze per il futuro.

Sempre in prima linea, orgogliosa e combattiva, è stata licenziata tre volte con vari pretesti e per tre volte è stata sempre reintegrata dal giudice. "Non ho difficoltà ad ammettere di aver pianto quando è successo - spiega -, ma quello attuale è il momento più difficile in assoluto perché sulle spalle sento il peso delle storie drammatiche di tutti i colleghi, persone che come me hanno famiglia e che non sanno come pagare il mutuo, le bollette, il pane per i figli. L'idea che un mio errore possa peggiorare anche la loro situazione mi tormenta".

Nell'immaginario comune il portuale è sinonimo di uomo rude, quanto è stato difficile per una giovane donna lavorare in quell'ambiente?

"Molto più di quanto si possa pensare. Ho subito molestie e sono stata bersaglio di pettegolezzi terribili. Un sorriso, una battuta bastavano per creare fraintendimenti e scatenare le malelingue. Sono stata fatta passare per una donna facile, l'accettare un passaggio in macchina veniva interpretato come una disponibilità ad andare oltre. Ma credo che sia una situazione che molte donne vivono anche in tanti altri ambienti di lavoro, alla fine la parità dei sessi esiste solo a parole".

Come è sopravvissuta?

"Diventando come loro, un maschiaccio. Stare in questo ambiente mi ha trasformata, ha cambiato il mio carattere, persino il mio linguaggio. Non sono più la 25enne esuberante e ingenua di allora. Se dimostri forza e risolutezza ottiene il rispetto e nessuno discute più il tuo essere donna".

Al punto che oggi i suoi colleghi maschi si affidano a lei per condurre la battaglia che vale il loro futuro...

"In un certo senso è stata una rivincita, ma col tempo ho scoperto che tutti hanno le loro fragilità, i loro problemi e le loro debolezze. Allora non è più un problema di maschi o femmine, ma di esseri umani, prima ancora che di lavoratori, a cui non puoi levare anche la dignità. E poi la vuole sapere una cosa? Certe proposte squallide mi sono arrivate anche da persone insospettabili che nulla hanno a che vedere coi portuali, gente in giacca e cravatta con ruoli di responsabilità che pensa di poterti portare a letto soltanto perché ha potere. Ecco, questi individui mi fanno veramente schifo, li trovo rivoltanti".

Ai suoi figli cosa racconta?

"La verità, sempre. Ad esempio che non abbiamo soldi e che devono sapersi accontentare. Loro mi prendono in giro e mi chiamano papà, il piccolo ridendo mi ha anche consigliato da poco di fare un lavoro da donna, tipo la commessa in un supermercato. Ma credo siano fieri di me, almeno lo spero".

Lei è single, in una vita come la sua c'è ancora spazio per l'amore?

"Credo di sì, però mi rendo conto che sono diventata troppo esigente. Quando dico che questo lavoro e le esperienze vissute mi hanno cambiato intendo anche questo, se vuoi starmi accanto devi essere forte almeno quanto me, altrimenti ti schiaccio. E diciamo che molti uomini sono forti solo a parole".

In passato ha subito minacce per la sua attività sindacale, le va di parlarne?

"Senza problemi. La prima volta mi hanno lasciato un biglietto sul parabrezza dell'auto, avvisandomi che me l'avrebbero bruciata. In seguito sono stata minacciata direttamente, faccia a faccia. Ho anche ricevuto messaggi in cui mi chiamavano bastarda e giuravano di mettermi una bomba sotto casa. Ho sempre denunciato tutto alla Digos e ho continuato a fare ciò che ritenevo giusto fare".

Cos'è il porto?

"È fatica e sudore, ma anche rabbia, ingiustizia e abusi. Ciò che mi fa ribollire il sangue è che chi prende diecimila euro al mese e deve decidere della tua vita non potrà mai capire cosa significhi non ricevere neanche i mille euro che ti spettano. Sono problemi che non hanno mai avuto, non lo capiranno mai. E poi mi fa arrabbiare quando vedo che la logica del ricatto funziona, quando noti che la gente inizia ad avere paura e perde il coraggio di reagire. Ma lo capisco, perché tornare a casa e spiegare ai tuoi figli che non hai i soldi per comprare loro l'indispensabile è dura, molto dura".

Ha mai pensato di mollare tutto, di cambiare lavoro e mettersi alle spalle questi 13 anni?

"Non mi sono mai pentita né di aver fatto la portuale né di essere una sindacalista, se è questo che vuole sapere. Forse un giorno mi guarderò attorno e deciderò di fare altro, ma prima devo finire quello che ho iniziato".

Dove vuole arrivare?

"Ad avere giustizia, perché ci stanno togliendo anche la speranza. Tutti noi lavoratori sopravvissuti della Compagnia abbiamo bisogno di credere ancora nella giustizia. E se non riusciremo ad ottenerla con la lotta sindacale allora confidiamo nella magistratura. Perché chi ha creato questo disastro sulla pelle dei lavoratori deve pagare. E io, noi tutti, non ci fermeremo".

Massimo Ledda

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