Il rischio è che si perda un patrimonio di sapienza millenaria. Schiacciati dalle logiche del mercato all'ingrosso, sono sempre meno i pastori che lavorano il Fiore sardo e che invece preferiscono conferire il latte ai caseifici industriali. È il paradosso della storia di un formaggio di antichissima ricetta, marchio Dop e presidio Slow Food, tutelato da un rigido disciplinare che codifica la lavorazione a latte crudo, mentre sullo sfondo si consuma la guerra tra gli ovili e l'industria casearia.

IL DISCIPLINARE - Si tratta di opposti punti di vista sull'osservanza della tradizione: da una parte i pastori, quelli che lavorano il latte nelle piccole caldaie di rame dell'ovile; dall'altra gli industriali che trasformano la materia prima dentro le vasche da migliaia di litri. Gli allevatori trovano difficile che dalla lavorazione a crudo di enormi quantità di latte di diverse greggi possa venir fuori un prodotto buono.

L'APPELLO - "Sarebbe auspicabile una maggiore chiarezza da parte del consorzio di tutela del Fiore sardo - avvisa Simone Cualbu, presidente di Coldiretti Nuoro Ogliastra -. Questa diatriba potrebbe essere messa a tacere dall'ente se dimostra che anche l'industria è in grado di osservare la ricetta tradizionale del Fiore sardo".

LA REPLICA - "Non è compito del consorzio dare queste dimostrazioni", replica Antonio Sedda, presidente dell'organismo di tutela che ha sede a Gavoi. Lui, titolare della Sepi Formaggi di Marrubiu, è uno degli industriali caseari che hanno conquistato il controllo dell'ente dopo una lunga battaglia con i pastori. Delle 200 mila forme di formaggio che finiscono sul mercato nazionale durante l'annata casearia, il 70 per cento viene prodotto dall'industria.

L'ENTE CON DUE VITE - Il consorzio di tutela del Fiore sardo ha avuto due vite. La seconda è cominciata un anno fa dopo che il ministero delle Politiche agricole ha riconosciuto ai caseifici la rappresentatività del 66 per cento della produzione. Oggi l'organismo di tutela è formato da sedici soci di cui undici sono allevatori, ma è evidente chi lavora più latte.

LA ROTTURA - In precedenza il consorzio contava 366 allevatori e la convivenza con i caseifici diventò impossibile quando, nel 2009, i pastori misero in minoranza gli industriali facendo passare in assemblea (col 67 per cento dei consensi) una modifica allo statuto che cancellava la norma in base alla quale il numero dei voti di ciascuno è proporzionale alla produzione. Finì che i proprietari dei caseifici andarono via sbattendo la porta e i pastori restarono a presidiare un mercato a quel punto piccolissimo (35mila forme). Sicché, mentre la produzione industriale cresceva, il Ministero ha assegnato il potere di tutela a coloro che lavoravano più latte.

LE ANALISI - Com'è possibile allora ottenere un prodotto perfetto quando in un caseificio industriale arriva la materia prima di diversi allevamenti? "È possibile con un controllo più accurato della filiera - spiega il presidente del consorzio Antonio Sedda -. Noi seguiamo il disciplinare ma anche i piani dei controlli che ci permettono di valutare i parametri del latte, il trasporto, la refrigerazione".

IL PROGETTO - Efisio Arbau, leader della Base e sindaco di Ollolai, dice di trovare "stupida questa diatriba". È tra i coordinatori del progetto di un distretto del Fiore sardo, ideato dall'Unione dei Comuni della Barbagia che ha riunito settanta pastori. Un piano avversato dal Consorzio; ma entro l'anno si parte. "L'idea è promuovere il prodotto in chiave territoriale. Valorizziamo un formaggio tipico raccontando la nostra storia, i luoghi, le tradizioni".

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