Sul fondo della grande fossa foderata con lo scisto del Gennargentu

(cinque-sei metri di diametro, alte altrettanto) si mettevano capre o pecore morte.

Bocconi prelibati per i grifoni, allora diffusissimi, che cadevano nella

trappola.

Non appena gli avvoltoi si preparavano al banchetto, entravano in

azione i confratelli del Santissimo Rosario che li finivano a randellate. Il motivo? Commerciale. Dalle ali dei rapaci i devoti membri della confraternita estraevano le remiganti, lunghe e robuste, per farne penne da scrivere, come si faceva per le oche, per i cigni, per gli aironi.

Un'antica tradizione di Aritzo rimasta viva fino a metà dell'Ottocento. Quasi se ne è persa la memoria, eppure il paese delle castagne e della carapigna (il sorbetto a base di limone, acqua e zucchero), conserva preziose testimonianze di quei tempi.

Sono le “untulgere” (s'untulgiu è il grifone), le grandi fosse in pietra per la cattura degli avvoltoi.

Ce ne sono almeno quattro, due in ottime condizioni.

Ora l'Ecomuseo della Montagna sarda e del Gennargentu propone visite guidate e altre manifestazioni per far conoscere questa originale tradizione.

“Con le penne dei grifoni si alimentava il mercato isolano della scrittura”, dice Armando Maxia, antropologo e curatore del

museo.

Secondo l'archeologa Giusi Gradoli, scopritrice delle dieci grotte

rituali a Seulo, forse l'untulgera è una pratica preistorica, quando l'uomo amava adornarsi con penne degli avvoltoi.
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