La povertà ci fa paura. E le “nuove” povertà ci fanno forse più paura delle “vecchie”, perché ci ricordano quanto sia facile cadere in uno stato di indigenza. E la paura può portare a reazioni non razionali che alimentano stereotipi e pregiudizi che non giovano alla ricerca di soluzioni.

Secondo uno di questi stereotipi la povertà è un fenomeno omogeneo. Ma i poveri non sono tutti uguali, né la povertà è uguale per tutti: cause, circostanze, evoluzioni e vissuti sono assai diversificati. Raramente la caduta in povertà è legata solo ad una mancanza di denaro, ma è spesso dovuta a fattori molto diversi, come la perdita di una persona cara, il verificarsi di improvvisi problemi di salute, la presenza in casa di un familiare con patologie gravi, o tutte queste cose insieme.

Un’altra idea piuttosto comune è che le soluzioni possano essere uguali per tutti. È plausibile un’idea del genere? In un condominio, gli appartamenti vuoti sono molto simili: stesso progetto; pareti, porte e finestre nelle stesse posizioni. Ma nessuno si aspetta che, una volta che gli inquilini ci vivranno abbastanza a lungo, gli appartamenti rimangano uguali. Perché pensare allora che in altri ambiti della vita accada diversamente? Ciascuno di noi ha proprie capacità di adattamento, e differenti risorse ed energie. Ognuno di noi ha poi anche un diverso progetto di vita ed esistono idee molto disparate in merito a ciò che si può ritenere giusto e importante e a cosa dia senso alla vita. Insomma, non tutti hanno le stesse aspirazioni. Ricordo, ad esempio, che ho conosciuto una persona che pensa che la felicità dipenda dal fatto di poter avere relazioni segnate da affetti profondi. Questa persona ha molti amici e affetti, infatti. Per le statistiche ufficiali figurerebbe tra i casi di povertà estrema, ma dice di essere felice perché ha ciò che per lui è importante e riesce a vivere dignitosamente col poco che ha e che in parte gli procurano i suoi tanti amici.

Se ci liberiamo da alcuni dei nostri stereotipi sulla povertà, ci liberiamo anche dall’idea che per combatterla basti dare del denaro a chi è povero. Le ricerche più serie ci dicono che questa idea è sbagliata e mostrano che le politiche che si basano su questa convinzione sono inefficaci. La ricerca ci dice anche che si tratta di un triplo spreco di denaro pubblico. Primo, perché non risolve i problemi delle persone. Secondo, perché destina ingenti risorse ad erogazioni a fondo perduto, anziché investire sulle capacità delle persone che si pretende aiutare. E infine perché chi è professionalmente preparato (e pagato) per dare un sostegno nelle situazioni più difficili è ridotto a mero passacarte che certifica il possesso dei requisiti necessari per accedere ai contributi. A questo triplo spreco si aggiunge una doppia mortificazione. Quella di persone che possiedono risorse, capacità e dignità, ma alle quali si concede denaro solo se accettano l’etichetta di incapaci o indigenti. E quella degli assistenti sociali che vedono svilita la propria professionalità e azzerata la loro funzione sociale.

Andrea Vargiu

Università di Sassari
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