Pubblichiamo oggi lo sfogo di una lettrice di Ghilarza affetta da una malattia cronica e costretta a lunghi e complicati iter per poter avere cure, e una vita, dignitose.

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"Gentile Redazione,

scrivo questa lettera perché vorrei far conoscere ai lettori, nonché all'Assessore alla Sanità, Luigi Arru, e al Direttore Generale dell'Azienda per la Tutela della Salute, Fulvio Moirano, una vicenda che considero emblematica della situazione della sanità in Sardegna.

Nel sito di Ats Sardegna si legge: "Il primo gennaio 2017 nasce l'Azienda per la Tutela della Salute [...]. Un'organizzazione più semplice, con la salute dei cittadini al centro".

Ecco, a partire da questa frase vorrei invece raccontare come è stato per me, nelle ultime settimane, muovermi in un'organizzazione per niente "semplice" e con la mia salute non certo "al centro".

Ho trentanove anni. Vivo a Ghilarza. Da nove anni ho una malattia cronica del sistema nervoso centrale e sono in cura presso un centro specialistico di Cagliari, a più di cento chilometri da casa mia. Potrei essere una ragazza qualunque di un paese qualunque della nostra isola. Di fatto, avere una certa malattia mi rende molto qualunque, perché siamo in molte e molti ad averla.

Il 15 settembre, il mio neurologo mi diagnostica una fase acuta della malattia e mi prescrive un trattamento per cui sono necessari tre giorni consecutivi di ricovero diurno. Mi prospetta la possibilità di ricevere la terapia in un centro a (o vicino a) Ghilarza. Mi mette però in guardia: non sempre si ottiene di fare una terapia fuori dal centro specialistico perché non ci sono direttive uniformi in merito.

Il 19 di settembre - quattro giorni dopo - ottengo di parlare con i medici del reparto medicina dell'ospedale di Ghilarza. Non c'è nessun impedimento alla somministrazione della terapia, ma il farmaco deve essere richiesto all'ospedale di Oristano. L'ospedale di Oristano non può acquistare il farmaco senza una relazione da parte del centro specialistico di Cagliari. Ma la prescrizione ancora non basta, serve una relazione. E anche con la relazione, non è possibile ottenere il farmaco in tempi brevi (brevi, certamente, in relazione a una fase acuta).

Il 25 settembre, viste le difficoltà io e il mio neurologo decidiamo che non farò la terapia inizialmente prescritta, ma farò invece un trattamento a base di cortisone, più facile da reperire, e che avevamo scartato perché tollero molto male i suoi effetti collaterali. Mercoledì 27 settembre comincio la cura a base di cortisone all'ospedale di Ghilarza.

Per riassumere, vengo buttata su un carrozzone che fa un giro di giorni e giorni nel niente e poi mi scarica in preda agli effetti collaterali di una terapia di ripiego.

Il mio neurologo e il personale ospedaliero con cui sono entrata in contatto fanno la loro parte e la fanno bene. Io faccio la mia parte: sono fiduciosa con i medici, diligente con le cure, collaborativa con lo psicologo e indulgente con il destino. Ho una malattia cronica e faccio la vita che fanno tutti, alla mia età e di questi tempi. E anche questo, fare la propria vita con una malattia cronica, è fare la propria parte.

Ma una persona che ha una malattia, per fare serenamente la sua parte nella vita, deve essere messa in grado di vivere con la malattia in modo degno. Una distanza di cento chilometri per una terapia la cui somministrazione non richiede strutture e personale specialistico non è una cosa degna: è soldi, è fatica, è tempo, è non essere autonomi. Poi, essere in fase acuta e dover rincorrere per nove giorni a una terapia è addirittura ridicolo. Tragicamente ridicolo, come la parte di certi pagliacci in certi vecchi carrozzoni.

Vi ringrazio dell'attenzione,

D. B. - Ghilarza

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